5 luglio 1984. Una data indimenticabile per Napoli e i napoletani. Così ai microfoni de Il Mattino, Diego Armando Maradona ripercorre le tappe del suo trasferimento al Napoli.
Maradona, quel giorno come è cambiata la sua vita? «Sono stato felice come uomo e calciatore. Mi sentii finalmente libero di giocare in una squadra che avrebbe esaltato le mie qualità e la mia fantasia con un pubblico unico. Sì, è vero, avevo lasciato il Barcellona che era ed è una delle squadre più blasonate al mondo: me ne rendevo conto perfettamente. Però nel mio periodo in Catalogna quasi non mi sentivo parte di un progetto. Non a caso poi mi hanno ceduto al miglior offerente e per mia gioia era il club azzurro».
Cosa ricorda di quella trattativa che non finiva mai e che tante volte sembrava arrivata a un punto di rottura? «Non vedevo l’ora che arrivasse l’annuncio del mio trasferimento al Napoli. Ero chiuso in albergo, dove mi raggiungevano informazioni spesso contrastanti, tanto che a un certo punto avevo anche smesso di sperare nell’agognato sì perché le cose si stavano complicando ».
Quando prese la decisione di lasciare Barcellona per Napoli? «Capii ad un certo punto che il clima intorno a me era diventato strano, al minimo errore venivo criticato e trovai anche poca solidarietà quando subii il grave infortunio alla caviglia (che gli spezzò Andoni Goicoechea dell’Atletico Bilbao nel settembre dell’83, ndr). Ma superai anche quell’ostacolo. E presi la decisione di andare via».
Che ricordi conserva ancora dei primi giorni napoletani? E della prima volta al San Paolo con lo stadio pieno per solo per la presentazione? «Ero pazzo di felicità ed entusiasmo e decisi di accettare il trasferimento al Napoli nonostante molte persone mi consigliassero di non farlo perché Maradona non poteva giocare con una squadra che lottava per non retrocedere. Ma io ho fatto valere il mio sesto senso e non mi sono sbagliato, c’è stata la magia e ha vinto l’istinto».
Perché proprio Napoli? «Mi sono legato a Napoli per il calore che la città e la tifoseria mi hanno riconosciuto dal primo giorno che il mio nome è stato accostato alla squadra azzurra, tutti puntavano su di me e io non potevo deludere Napoli. Vi racconto un episodio. Ero a Barcellona nei giorni in cui stavo maturando il desiderio di cambiare aria e non potete capire quanti napoletani mi fermarono lungo le strade di Barcellona chiedendomi di vestire subito la maglia del Napoli. Fantastico. Furono quei gesti a farmi capire come sarebbe stato importante per me venire a Napoli».
Diego, giocando con la Juve o l’Inter quanti scudetti o quante coppe in più avrebbe vinto in Italia? «Niente. Perché non avrei giocato con altre squadre italiane che non fossero il Napoli. E di offerte me ne arrivarono: indirettamente dalla Juventus ma in un periodo in cui la Fiat era in crisi (e Boniperti dovette fare marcia indietro, ndr) e direttamente dal Milan attraverso un rappresentante di Berlusconi. Continuo a pensare, e lo penserò sempre, che Napoli sia stata la scelta più corretta: era il mio destino».
La gioia del primo scudetto. Ma come faceste a perdere il campionato del 1988? «Arrivammo alla fine della stagione senza più energie e gran parte della squadra aveva un rapporto non eccellente con l’allenatore Bianchi. Peccato, perché ad un certo punto sembravamo irraggiungibili, sembrava che fossimo pronti a vincere il secondo scudetto consecutivo. Poi il calo graduale e la sconfitta nel confronto diretto con il Milan, quello giocato il primo maggio. Provai a caricare l’ambiente chiedendo di vedere solo bandiere azzurre, ma servì a poco perché eravamo stanchi e acciaccati. Purtroppo il Milan, al meglio delle sue condizioni, riuscì a vincere al San Paolo.Fu per me e per tutti noi una grande delusione».
Diego, degli 88 gol segnati con la maglia azzurra, quali ha più nel cuore?«Tutti hanno un significato e tutti li ricordo, come penso tutti i tifosi napoletani. Però quello segnato a Bologna, nella sfida che ci consegnò il secondo scudetto, lo metto al primo posto nella galleria dei ricordi per il valore di riscatto che ebbe. Per me, per la squadra e la città. Poi, come faccio a dimenticare il gol al Verona segnato da centrocampo, quello alla Lazio direttamente da calcio d’angolo e il calcio di punizione alla Juventus diventato, ormai,un pezzo di storia per il calcio?».
Ma il primo anno, Marchesi allenatore, con la squadra in lotta per la B, si è mai pentito di essere venuto a Napoli? «Inizialmente ero un po’ sfiduciato e insistevo con la società nel pretendere calciatori che ci permettessero non solo di salvarci, ma anche di essere finalmente competitivi. Mi ripetevano sempre che avrei dovuto aspettare la stagione successiva. E devo dire che avevano ragione».
Quale il compagno a cui ha voluto più bene nei sette anni napoletani? «È difficile sceglierne uno più di un altro quando in uno spogliatoio tutti ti hanno voluto bene, eravamo una squadra che giocava ed era unita per la maglia. La partita già si vinceva nello spogliatoio. Però alcuni compagni li vedo ancora e ho con loro un rapporto sempre speciale. Bruscolotti mi consegnò la fascia di capitano che era la sua e gli dico grazie anche perché mi ha sempre considerato un fratello. Lui e la moglie Mary, che ricordi a casa sua davanti alla proverbiale pasta e patate con la provola».
Se è venuto a Napoli a chi deve dire grazie, più a Juliano o a Ferlaino? «Il merito è stato sicuramente di Juliano e di Dino Celentano, i due dirigenti del Napoli rimasti per due settimane a Barcellona nella convinzione che alla fine l’avrebbero spuntata nonostante le mille difficoltà. Ferlaino, invece, non credeva alla possibilità di portarmi al Napoli e aveva già avviato una trattativa con l’Atletico Madrid per prendere Hugo Sanchez al mio posto ma già i napoletani sognavano Maradona».
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