Scoprire che i giocatori stranieri vengono in Italia per il vile pecunio e non in virtù di elevati e disinteressati ideali, è come scoprire in tarda età che Babbo Natale non esiste e la Befana forse viaggia con voli low cost ma non a cavallo di una scopa di saggina. Edinson Cavani è stato salutato dal Napoli (inteso come società) in maniera alquanto bizzarra, cioè con l’anatema che solitamente viene lanciato contro chi cambia bandiera incentivato dalla prospettiva di un più elevato salario: Mercenario. Per quanto Cavani fosse un Atleta di Cristo sfidiamo chiunque a pensare che in campo ci andasse per beneficenza. Non ci andava quando lo ingaggiò il Palermo, non ci è andato con la maglia del Napoli e non ci andrà, nel futuro prossimo con quella del Psg. L’acqua calda è una bella scoperta solo quando fai la doccia. Obiettivamente questo livore post-transfer sorprende e, in qualche maniera, esprime la difficoltà del calcio ad avere relazioni serene con la realtà circostante, con la normalità piuttosto che con l’anormalità.
Cavani non è fuggito nottetempo ma in virtù di un contratto con una clausola rescissoria che, se pagata, lo avrebbe sciolto dagli obblighi lavorativi con il Napoli. Che le cose potessero andare in una certa maniera era noto a tutti. Così come era noto a tutti il fatto che la società considerasse quella clausola congrua, cioè sufficiente a evitare l’assalto di qualche acquirente. Ma gli sceicchi, in questo calcio, esistono, hanno i soldi e li spendono: ci si può rammaricare di non avere le medesime disponibilità economiche, non del fatto che poi venga loro in mente di pagare quella clausola liberando di conseguenza l’interessato dagli obblighi contrattuali con l’ormai ex datore di lavoro. Ci sono tanti modi per dirsi addio. Farlo dando sfogo a rancori infondati (soprattutto da parte di chi quelle condizioni contrattuali le ha definite e sottoscritte) è probabilmente la maniera peggiore. E, in ogni caso, ci sarebbero almeno sessantadue milioni (di euro) di motivi per esprimere un po’ di riconoscenza a Cavani visto che quei «motivi» potranno consentire un mercato adeguato agli impegni di una stagione in cui bisognerà difendere il secondo posto dello scorso anno (provando, semmai, a fare l’ultimo salto di qualità) e migliorare il traguardo raggiunto un paio di anni fa in Champions (gli ottavi). Cavani, insomma, qualcosa al Napoli ha dato: 104 gol, una bella avventura in Champions, una stagione in cui la squadra se l’è giocata quasi alla pari con la Juve. Si può sicuramente essere amareggiati (come lo sono i tifosi) per il fatto che sia andato via ma l’uruguaiano va valutato per quel che ha fatto in campo e in campo non ha mai tirato indietro la gamba, si è comportato da lavoratore leale sino a quando è stato contrattualmente legato all’Azienda. Ha rispettato gli impegni (sino a quando sono stati legalmente validi) e per questo, a sua volta, merita rispetto. Fuori da queste logiche tutto si ammanta di strumentalità. Inutile e sgradevole. La dimensione del calcio è il futuro, mai il passato. Cavani fa ormai parte del passato, di ricordi che allietano l’album dei tifosi. Il tradimento è una categoria dello spirito che può riguardare l’amicizia e i matrimoni non il calcio, soprattutto quello che si è sviluppato negli ultimi vent’anni, sempre più business e sempre meno passione. Cavani non è un benefattore e i club non sono organizzazioni simili alle Dame di San Vincenzo, anzi i presidenti, tutti i presidenti, si dichiarano orgogliosamente lontani da logiche compassionevoli. Ecco perché appare veramente poco legittimo questo desiderio di arricchire con caratteristiche astiose un divorzio che si consuma senza tradimenti, ma sulla base di una clausola contrattuale che le parti hanno liberamente sottoscritto.
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
L.D.M.
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