Piuttosto breve ma anche particolarmente intenso. Ecco il suo rapporto col Napoli, ma anche con Napoli. Solo spezzoni di partite, solo due annate, ma di quelle intrise di ogni cosa. Indimenticabili. Cristiano Lucarelli, mister 99, ha vestito l’azzurro nell’estate del 2010 e ha appeso gli scarpini al chiodo nell’estate del 2012. Con indosso ancora la casacca azzurra e una Coppa Italia da stringere forte. Il trofeo più bello, perché arrivato in zona Cesarini (di carriera). Anche se non conquistato sul campo, ma con un prezioso impegno dietro le quinte. Facendo da collante, la famosa amalgama, facendo da bussola e pure da riferimento tecnico per le bocche da fuoco azzurre. Ecco ciò che gli aveva chiesto Mazzarri, che lo aveva voluto a tutti i costi (nonostante fosse a fine carriera), ritenendolo un tassello particolarmente importante soprattutto per la crescita del gruppo.
Una fiducia reciproca, è così?
«E’ vero. C’è stata sempre una profondissima stima fra me e il mister, dai tempi di Livorno. Anche se poi c’è capitato solo una volta di ritrovarci a cena insieme. E, nel richiedere il mio contributo, sapeva benissimo quello che avrei potuto offrire. Il mio impegno è stato totale, ma devo pure aggiungere di essere stato ripagato al meglio. Su tutti dall’affetto della piazza, dal calore di quei tifosi che ancora mi fermano per salutarmi e complimentarsi. Ecco anche perché sono diventato e sono ancora un tifoso azzurro».
Eppure con il tifo locale non si era partiti proprio col piede giusto. C’era stata qualche contestazione al suo arrivo a Napoli.
«Si trattò solo di un malinteso. Pensavano che in un precedente Parma-Napoli avessi offeso la curva partenopea con un gesto. Non era stato così e mi preoccupai subito di chiarire. Sono stato anch’io uomo di curva e non mi sarei mai sognato di fare una cosa del genere».
Mazzarri aveva un secondo (Frustalupi), ma per certe questioni incaricò lei. Giusto?
«Il mister il secondo anno mi chiese di dare una mano agli attaccanti. Più che da istruttore, facevo da traduttore. Provando cioè a rendere nella pratica assimilabili quelli che erano i movimenti dalla trequarti in su, soprattutto in chiave finalizzatrice. I miei due “allievi” erano Lavezzi e Cavani. Inutile dire che quegli allievi erano particolarmente abili anche dal punto di vista dell’apprendimento».
Due anni di Napoli, quattordici presenze frammentate, intervallate da un infortunio piuttosto serio. E poi un gol indimenticabile alla Juve. Cosa le è rimasto più impresso?
«Bella domanda. Io ho tutto ancora vivissimo davanti ai miei occhi. Poi ci sono dei flash particolarmente abbaglianti. L’indimenticabile notte dell’Olimpico con quel trofeo sollevato al cielo e arrivato anche col mio modesto apporto; il gol dell’ultima giornata alla Juve nel suo stadio, gioia indescrivibile. Ma forse su tutti ci metterei il 4-3 alla Lazio, solo qualche turno prima. Entrai a pochi minuti dalla fine, eravamo sul 3-3, ma come succedeva di solito non ne volemmo sapere di accontentarci. Il gol della quaterna, a firma di Cavani, quell’incredibile pallonetto da fuori area, fu realizzato anche col mio contributo».
Il campo a sprazzi, quindi, ma anche la città?
«Per niente. L’abbiamo vissuta totalmente con la mia famiglia. Complice, anche se non è bello da dire, l’infortunio che mi tenne lontano dal campo per tre mesi. Una delle notti più brutte per me, che avevo pregustato la mia seconda presenza in azzurro, per giunta in Europa, contro l’Utrecht, e invece mi dovetti fermare per un ginocchio diventato improvvisamente di gomma. Una lesione molto seria ai legamenti, ma lo staff medico fu capace di farmi tornare in campo nel giro di tre mesi. Nonostante le mie 35 primavere. Impagabile. Ecco, quei novanta giorni li utilizzammo per scoprire la Napoli che non conoscevamo. E ne fummo stregati. Il momento degli addii, poi, arrivò struggente. A cominciare da mia moglie Susanna, ma anche i miei figli, Alisia e Mattia, che giocava da centrocampista nel Posillipo, dove avevamo casa».
C’è un Napoli del tutto nuovo adesso rispetto al suo. Via Lavezzi, poi Cavani e tanti altri.
«Sì ma sono arrivati gli Higuain e i Mertens. L’argentino, fenomenale, è già entrato nel cuore dei tifosi, il belga è quello che più mi ha impressionato. Non pensavo fosse così forte».
Visto che ci troviamo in zona, secondo lei uno come Vargas andrebbe valutato?
«E’ un talento e lo posso confermare perché sono stato in squadra con lui e gli ho sempre visto fare cose eccellenti in allenamento. Sarebbe un peccato privarsene ancora».
E’ un Napoli migliorabile?
«Tutto si può migliorare. Certo, se arrivassero un paio di top player sarebbe il massimo, ma conoscendo Bigon so che riuscirà ad operare al meglio».
Nomi da suggerire?
«No, anche perché Benitez, allenatore che sa bene il fatto suo, sa anche molto bene quali sono gli acquisti da fare. E Il Napoli salirà ancora, sia in Europa sia in campionato».
E lei tornerà?
«Già lo faccio spesso: abbiamo tantissimi amici, a cominciare dal napoletano Paolo Cannavaro. E poi ho sempre detto che il mio sogno sarebbe quello di tornare da allenatore. A Napoli, ancor più che nella mia Livorno».
Fonte: Corriere dello Sport
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