Novantanove amaranto. Su di lui hanno fatto un documentario – 99 amaranto, appunto, di Federico Micali -, su di lui hanno scritto un libro, il bellissimo e verace Tenetevi il miliardo, di Carlo Pallavicino. È l’ultima bandiera, Lucarelli, eppure ha cambiato 13 maglie, facendo innamorare tifosi di ogni latitudine, in Italia e fuori. E le amarezze della sua carriera sono tutte sulle tonalità tra il granata e l’amaranto, dalla retro- cessione con il Torino in B alla Livorno che l’ha tradito. Cristiano Lucarelli non è solo un calciatore, e ora un allenatore, ma è un simbolo di un calcio che non esiste più, tutto grinta, passione e lotta. Doti che nascono dalle strade della periferia livornese, da 547 partite, in campionati e coppe d’ogni tipo, e 220 gol.
Cristiano, da bomber ad allenatore. Com’è stato il grande salto?
Mi trovo bene in questo nuovo ruolo di tecnico degli Allievi nazionali del Parma, mi sto divertendo tanto. Ho iniziato con grande passione e questi ragazzi mi danno una grande soddisfazione portando in campo quello che chiedo loro, il nostro entusiasmo aumenta di settimana in settimana. Li vedo crescere, quello che fanno sul campo mi dice anche come saranno da grandi, lo sport non mente sul valore degli uomini. Anche se nel processo di crescita rimangono determinanti i genitori. A me rimane il compito, non piccolo, di fare l’allenatore, di fargli sentire i veri valori di questo sport, di insegnar loro a giocare a calcio.
Ti riconosci in questi giovani?
Questi ragazzi sono mentalmente molto più avanti di noi alla loro età: si documentano di più, magari su Internet, hanno più stimoli. Noi ci arrangiavamo sempre da soli, loro sono più svegli di noi ma forse anche più distratti: per noi l’unico gioco era il pallone, non c’erano i videogame, la tv la si vedeva poco e niente. Se ci volevi fare un regalo, bastava una palla. Io son venuto su tirando calci al campetto, non avevo altri desideri per divertirmi che fare una partita.
Lucarelli è più Zeman o Capello?
Né l’uno, né l’altro, l’ambizione è quella di fare un bel mix tra questi due grandissimi. Non sarebbe affatto male, a partire dal carisma per arrivare alla loro capacità tattica.
Il calcio ti ha più dato o tolto?
Il calcio m’ha dato e basta, mai avrei immaginato, per esempio, che sarei riuscito ad arrivare in Nazionale (6 presente e 3 reti ndr), segnando al mio esordio. Sapevo che sarei diventato calciatore, ma non potevo lontanamente sperare in una carriera così. Ho giocato e segnato in Champions, mi sono tolto tante soddisfazioni. Ovvio che qualche rinuncia c’è stata, ma nessuna è stata dolorosa: io non sono uno da discoteche, non amo la vita mondana e quella notturna, a me avere un comportamento da professionista viene naturale. Ho meno privacy di una persona normale, ma se da piccolo m’avessero prospettato tutto questo, avrei firmato a occhi chiusi col sangue: per un sogno così sei pronto a tutto se ami questo sport. Vorrei aver avuto, magari, solo un po’ più di tempo per la famiglia, per i bimbi, che sono cresciuti senza quasi che me ne accorgessi.
Tra i sogni realizzati non ci sono le Olimpiadi?
Di Atlanta 1996 non ho mai parlato perché noi la vivemmo come una competizione extra, senza sentire lo spirito olimpico. Non abbiamo partecipato alla cerimonia iniziale, alloggiammo fuori dal villaggio. Era un po’ come una fase finale degli Europei o dei Mondiali. Un po’ l’ho sempre rimpianto, mi sarebbe piaciuto tanto vivere l’atmosfera del villaggio, incontrare colleghi e atleti di altre discipline. Sarebbe bello tornarci da allenatore, chissà.
Nel calcio sei sempre stato una mosca bianca. Anzi, rossa. Ti ha penalizzato?
Non mi ha certo agevolato il mio modo di stare nel mondo del calcio, non è un mistero. Interessarsi di ciò che succede fuori dal campo, nella vita vera, non viene visto come qualcosa di positivo in quest’ambiente, le società vogliono sempre che i tesserati rimangano abbottonati, concentrati sugli impegni sportivi, senza distrarsi con dibattiti esterni. Non credo sia giusto, non ci si può estraniare dalla realtà. Non puoi ignorare i problemi che ci sono fuori, devi prendere posizione su ciò che accade. Anche per chi ti segue allo stadio, che spesso ne è coinvolto. Molti si disinteressano della politica, della società. Non capiscono che spesso si tratta di semplice umanità il voler capire cosa prova un operaio, un insegnante, specialmente nei momenti di difficoltà. Un calciatore dovrebbe documentarsi su tutto ciò che accade, anche senza necessariamente dichiarare un’appartenenza politica, senza dire per chi o cosa vota.
E ora Lucarelli come vede il suo Paese?
Al di là dei tanti problemi, dopo le decisioni forti che ha preso il governo Monti, dopo i grandi sacrifici che ha imposto ai cittadini, credo che il peggio sia passato. O almeno lo spero: non dimentichiamo che se ora ci sentiamo vessati, è perché prima le cose non sono state fatte nel modo giusto. La Germania non ha sofferto come noi la crisi, perché? Dobbiamo stringere la cinghia ora perché in passato non si è pensato al futuro, hanno svuotato le casse e l’Italia è arrivata sull’orlo del disastro. Ora puntino sui giovani, perché il paese ricominci a respirare.
Le novità di questa fase politica sono state Beppe Grillo e Matteo Renzi. Tu cosa ne pensi?
Grillo è un po’ la voce del popolo, non possiamo né dobbiamo sottovalutarlo. Un non politico che non ha su di sé il peso di un partito e che ha creato un movimento di gente stanca di quello che succedeva. Mi incuriosisce molto, soprattutto ora che sta crescendo e prova ad arrivare al potere. Alcune delle sue argomentazioni possono essere discutibili, ma non va ignorato e contrastato a priori. Rappresenta molti italiani e un disagio che nessuno ha saputo incarnare. Su Matteo Renzi devo dire che il suo successo più grande è stato quello di aver dato senso a delle primarie che hanno rivitalizzato un elettorato che è tornato in corsa, si è sentito coinvolto e sembra uscito da una paralisi. Il risultato finale mi piace, forse proprio per merito dello sconfitto, Renzi ha risvegliato il Pd, riportando il dibattito nel centrosinistra.
Niente male per uno che ha Bandiera Rossa come suoneria del cellulare.
Peccato che io non ce l’abbia sul telefonino. S’è tanto giocato, da una parte e dall’altra, con il mio personaggio. Le mie posizioni spesso sono state strumentalizzate, in positivo e in negativo. E così sono nate molte leggende metropolitane, che se mi mettessi a smentirle tutte non potrei fare altro. La Rete, poi, dà libertà di parola, ma anche libertà… di stronzate. Tutti possono scrivere, tutti possono dire falsità, per danneggiarti o anche per creare un mito che non c’è.
Napoli, Cosenza, Lecce: sei più amato al Sud?
La mia storia personale è fatta di sofferenza, di miseria, anche se il mio babbo operaio non ha fatto mancare niente a noi tre fratelli. Però di sicuro non navigavamo nell’oro e ci siamo dovuti sudare tutto, fin da piccoli. Vengo dalle case popolari, da anni duri, e la gente credo che l’abbia sempre sentito nella mia voglia di lottare, di emergere. E al Sud l’hanno capito meglio perché lì le opportunità di lavoro sono poche, perché spesso sono colpiti dai pregiudizi e non di rado dal razzismo. Il Meridione è la parte del paese che è più in difficoltà, e allora, visto che non ci ha regalato mai niente nessuno, ci capiamo meglio, quei tifosi mi hanno sentito come uno di loro, nei miei gol, forse, vedevano anche il loro riscatto. E poi Livorno, non è un segreto, molti la considerano la Napoli del nord: ed è vero, siamo uomini aperti e libertari.
Napoli: una partita intera, undici spezzoni e un gol. Eppure sotto al Vesuvio sei un idolo.
Sono arrivato a Napoli con un po’ di preoccupazione, lo ammetto. Ne avevo sentite tante, temevo fosse una città pericolosa. E invece, per la prima volta nella mia vita mi sono sentito del tutto a casa in un posto, senza la necessità di tornare a Livorno ogni settimana come in passato. Per questo mi dispiace per quel primo anno condizionato dal grave infortunio e per il secondo quando stato utilizzato col contagocce: non per me, ma perché volevo restituire tutto l’amore che ho ricevuto dai napoletani. Ho sempre pensato: ma se 200 e passa reti l’avessi fatte con quella maglia, cosa sarebbe successo? Quell’affetto lo ricevo ancora oggi. Non ho fatto molto dal punto di vista tecnico, ma è stato ancora più bello, sotto un certo punto di vista, ottenere il rispetto e l’amore della gente così. Hanno sentito che mi sono comportato bene, che la città la vivevo, che ero disponibile verso di loro. La mia famiglia ed io abbiamo Napoli nel cuore, ci è costato tantissimo andare via, avevamo trovato la nostra dimensione.
Si dice che nella maturazione del Pocho Lavezzi ci sia il tuo zampino.
Non ho fatto nulla di eccezionale, dico la verità, se non provare a dare il consiglio giusto al momento giusto: Napoli è una piazza particolare in cui entusiasmi e delusioni vivono di eccessi. In quei momenti lì ci vuole l’equilibrio del giocatore più esperto, di quello che sa fare meglio gruppo. E non ero da solo, un altro così è Morgan De Sanctis, un grande uomo, nello spogliatoio e fuori. Uno che ci mette l’anima. Nell’ultimo anno mi sono preso il Pocho e mi sono dedicato a lui, soprattutto per farlo migliorare in area, perché lui tendeva a cercare più la giocata che il tiro in porta. Ogni tanto si univa anche Edinson, ma lui non ne aveva bisogno. Quello che ti colpisce di uno come Cavani è che non smette mai di voler migliorare, non si sente mai arrivato, vuole imparare. Ho provato a insegnar loro qualche trucchetto che a mia volta, durante la carriera, avevo imparato da altri. A una certa età un giocatore è giusto che non pensi a se stesso, ma soprattutto alla squadra. Ho fatto quello che si doveva fare, nulla di eccezionale.
Come mai, secondo te, l’argentino non riesce a esplodere a Parigi?
Il Pocho ha iniziato bene nel PSG e ora mi sembra che si sia ritrovato. Le sue difficoltà in questi primi mesi hanno tante cause: intanto Parigi non è Napoli, a partire dal clima e dalle persone. E poi io dico sempre che è meglio essere generale in Corsica che maresciallo in Francia. A Napoli la città lo osannava, era l’idolo assoluto, era abituato ad avere le coccole del pubblico, dei compagni e del presidente, nella squadra di Ancelotti di Lavezzi ce ne son tanti. Di sicuro però è che questo per lui sarà un trampolino per il salto di qualità: se saprà imporsi, diventerà un giocatore ancora più forte.
Leggenda vuole che tu in Europa League il legamento del ginocchio te lo sia rotto subito. Ma sei rimasto in campo fino alla fine.
Sì, è vero. Pochi minuti dopo essere entrato contro l’Utrecht ho sentito il crac. Ma la mia era la terza sostituzione, se fossi uscito avrei lasciato la squadra in 10. E sullo 0-0, era determinante non dare questo vantaggio agli avversari. E allora sono rimasto in campo lo stesso, giocando da fermo, tentando di catturare qualche pallone in area, anche se avevo capito che era saltato tutto. Ma in quel momento di sofferenza, non potevo lasciare i ragazzi, la superiorità numerica avrebbe galvanizzato gli olandesi. Forse ho peggiorato la mia situazione, ho reso più grave il mio infortunio, però a quel punto era importante non pensare alle conseguenze. In fondo non è che avessi 18 anni, non mi giocavo la carriera, ne avevo 35, potevo rischiare. Non farmi passare da eroe, su.
Lo fai sembrare normale, ma quale dei tuoi colleghi lo farebbe ora?
Sei severo, non bisogna generalizzare. I calciatori nell’immaginario collettivo sono milionari, vanno in giro in Ferrari, hanno lo yacht. Niente di male, ma quelli così sono pochi. In seconda divisione prendono 1200 euro al mese, spesso lavorando a 1000 chilometri di distanza dalla famiglia. La realtà del calcio non è la serie A. Forse qualcuno tira pure via la gamba, ma la maggior parte dei calciatori lottano lealmente, ogni giorno. E alcuni di loro, senza avere i risparmi dei campionissimi né le loro opportunità dopo il ritiro, magari ora sono senza squadra e con una famiglia da mantenere.
Passiamo a Livorno, il tuo grande amore.
Livorno mi ha dato dei momenti bellissimi. Ma ora, guardandomi indietro, sinceramente mi sento di dire che ho dato più di quanto ho ricevuto. Quello che ho fatto io per il Livorno è qualcosa di incredibile. In cambio ho avuto l’affetto della gente, ma solo quando la mettevo dentro. Perché le poche volte che il mio rendimento non è stato all’altezza, partivano le critiche, le malignità sulle situazioni extra calcio, mi andavano contro anche fuori dal campo. Lo dico senza polemica, ma per informazione: i fatti non si cancellano. Odia i suoi figli preferiti Livorno, soprattutto quando se ne vanno.
«Tenetevi il miliardo», lo diresti ancora?
Rinuncerei ancora a quel miliardo, lì ho comunque vissuto i momenti più belli della mia vita, sensazioni positive, uniche. Il guaio è che poi, come spesso accade, queste cose hanno uno strascico. Prima mi comportavo da innamorato, vedevo solo le cose positive, i pregi della mia città. Dopo ho imparato a vederne anche i difetti. Pensavo che il rapporto andasse oltre i gol e le partite, speravo e credevo che quello che ho fatto andasse oltre il campo di gioco. Evidentemente mi sbagliavo. E la politica non c’entra niente, con i tifosi io ho fatto molte cose, ma solo nel campo della solidarietà.
Cosa non rifarebbe Cristiano Lucarelli?
Tutto quello che ho fatto mi ha permesso di essere ciò che sono, rifarei tutto, starei solo più attento con persone che si dichiaravano amiche e che consideravo tali e poi sono sparite, mi stavano attorno solo per interesse. Mi farei trasportare meno, sarei più schivo. Questa è una lezione che m’ha cambiato come sportivo e come persona, ora sto molto più attento nei rapporti con le persone. Prima mi buttavo a capofitto, ora studio bene la situazione.
In Ucraina ti coprivano d’oro, hai segnato 4 gol in Champions. Perché sei andato via?
Donetsk l’ho lasciata perché volevo giocarmi gli Europei. Non mi sentivo ancora vecchio, non potevo svernare là, l’anno prima avevo vinto la classifica capocannonieri con 24 gol, ero nel pieno della forma. E così quando con gli ucraini uscimmo dalla Coppa, avevo davanti la prospettiva di una lunga pausa invernale, con appena 6-7 partite da giocare, pochine per convincere Donadoni. Non ci sono riuscito, ma, comunque, se non fossi tornato da lì, non sarei poi andato né a Napoli né a Parma, e non avrei conosciuto persone meravigliose. I due anni a Napoli, l’opportunità che m’ha dato Ghirardi qui, non li cambierei con nulla al mondo.
I trasferimenti mancati che rimpiangi?
L’Udinese, ai tempi del Toro: allora, come oggi, occupava le prime posizioni della classifica, e io rimasi in granata perché volevamo fare grandi cose. Dopo un anno, sognavo di portare quella squadra gloriosa a traguardi importanti, ma non accadde: fu la stagione della B, una tragedia sportiva con tanto di record negativi. Pozzo mi aveva chiamato offrendomi 5 anni di contratto per sostituire Bierhoff, e dopo pochi mesi mi ritrovai retrocesso. Bel salto, poteva cambiare totalmente la mia carriera. E poi l’anno in cui divenni capocannoniere arrivò un’offerta del Tottenham. La rifiutai, per il Livorno, ero ancora troppo innamorato. L’anno dopo ci provò pure lo Zenit, ma ero arrivato in Uefa con la squadra della mia città, dopo Calciopoli, come potevo non giocarmela? Ma rimpiango di più la prima, ho sempre sognato la Premier, mi piace quel calcio fisico e leale, il contatto fisico.
Chi vince lo scudetto quest’anno?
Lo spogliatoio del Napoli è pronto e maturo per aspirare a traguardi importanti, il calcio insegna che non sempre vincono i più forti, ma a volte anche i più bravi. Certo, quella piazza esplosiva devi gestirla bene. A gennaio, però, non prenderei altri giocatori: non credo negli acquisti di gennaio, prendi gli scontenti e i tempi d’inserimento sono spesso molto lunghi.
Lucarelli entrerà mai in politica?
No, ho ancora voglia di campo come allenatore. La prospettiva di una candidatura politica non mi ha mai entusiasmato, non ho mai sognato quella carriera, non é il mio mondo.
E un ruolo in federazione lo accetteresti?
Sono umile, c’è chi lo farebbe meglio di me: si affidino a Baggio, a chi il calcio l’ha fatto. Come ha fatto la Fifa con Platini. Quella è la strada.
Fonte: pubblicogiornale.it
La Redazione
P.S.
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