Succede: perché in questo calcio che divora se stesso, l’altare della domenica sera diviene (talvolta) la polvere per cospargersi il capo o per seppellire (momentaneamente) piccoli capolavori. Milano è ormai un frammento della memoria e d’una notte a modo suo stellare, utilizzata per demolire un tabù vecchio di ventisette anni, è rimasto il pallido ricordo dell’impresa: si gioca a ritmo continuo, e frenetico, e ciò che si crea può essere persino distrutto al tramonto d’una infrasettimanale indigesta. Il Napoli di Benitez s’è attorcigliato intorno al turnover, ha (ri)scoperto la complessità d’una stagione mostrando per un quarto d’ora il meglio di sé e per quegli altri settantacinque minuti la propria copia sbiadita: e Genova, per loro, per chi c’era ma soprattutto per chi non c’era, diviene l’ancora a cui aggrapparsi per riemergere in fretta, dopo una serata in apnea. Si cambia ancora ed è inevitabile che sia così, perché in quelle quattro giornate del Napoli c’è già l’essenza d’una parte della stagione e verità che possono sostenere non solo l’autostima della squadra ma anche l’umore dell’ambiente: Marassi è l’anticamera – in calendario – dell’Emirates e in questi centottanta minuti si può definire il clima in cui andare a vivere ma, soprattutto, si può rivalutare in maniera più adeguata l’entità d’una squadra che ha valori precisi e una propria identità. Il sospetto che s’annida tra le tenebre di quell’1-1 strappato – con onore, con coraggio – dalla presunta Cenerentola del torneo è nella capacità d’essere freschi, reattivi, vivi, di riuscire a competere non soltanto con la testa (e dunque con una autorevolezza che non è stata messa in discussione), ma soprattutto con le gambe: perché Napoli-Sassuolo ha lasciato un sapore agrodolce soprattutto nell’analisi atletica d’un gruppo ch’è apparso in sofferenza, come negli ultimi quindici minuti di San Siro. A settembre, dopo appena un mese d’attività, è complicato pensare che si sia già al cospetto d’un deficit fisico e le congetture sui sistemi di preparazione, le libere interpretazioni sul metodo-Benitez che privilegia il lavoro con il pallone, restano confinate del dibattito astratto da bar sport: perché poi la storia è lì che parla e dà un senso alle tesi e ciò che appena ieri (calcisticamente) è servito per vincere con il Chelsea l’Europa League e per riafferrare al volo la (pregiudicata) qualificazione in Champions League, è la stessa, identica formula magica utilizzata in quest’autunno partenopeo che tra Genova e Londra cerca solo di far cadere i primi, inquietanti dubbi di stagione.
Fonte: Corriere dello Sport.
La Redazione.
D.G.
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