Due fenomeni diversi ma entrambi straordinari: sono Leo Messi e Diego Armando Maradona, accomunati dalle stimmate del genio calcistico. È il giudizio di un grande scrittore che al calcio dedica la sua energia creativa, Eduardo Galeano. Sollecitato dal Mattino, Galeano entra in particolari e spiega le peculiarità che distinguono cuiascuno dei due fenomeni: «Maradona portava la palla attaccata al piede e Messi la porta dentro il piede». A Cavani consiglia di restare a Napoli. Il calcio che riempie gli occhi, la maestria che supera i limiti e stupisce, lo stampo del genio, come quello di Leo Messi, la Pulce gigante per ingegno, intuizione e talento, autore dell’ultima storica «manita» rifilata al Bayer Leverkusen al Camp Nou… «Un bel giorno la dea del vento bacia il piede dell’uomo, il maltrattato, il disprezzato piede, e da un bacio nasce un idolo del calcio...», scrive il grande Eduardo Galeano nel suo Splendori e miserie del gioco del calcio (Sperling & Kupfer, 2005). E, a proposito di idoli, abbiamo chiesto allo scrittore uruguayano: chi lo è di più, Maradona o Messi?
«Entrambi sono molto diversi ed entrambi, straordinari», la replica piena di ammirazione bipartisan. Ma con distinguo: «Maradona portava la palla attaccata al piede e Messi la porta dentro il piede. Da questo punto di vista, la genialità di Messi è più inesplicabile, non c’è scientifico che possa farlo: la scienza comprova che la palla non entra nel piede e la magia di Messi dimostra di sì e che per di più gli avanza spazio», osserva il 72enne autore di Memorie del fuoco, della cui arte di «raccogliere le voci dell’anima e della strada», abbattendo le frontiere fra generi letterari, si pregia Sua maestà il football. A 24 anni, Messi è nella leggenda, come Di Stefano, Pelé ed El Pibe de oro, con 18 titoli nel palmares, macina un record dopo l’altro: 48 gol nella stagione – a tre mesi dalla fine – e a soli tre dal traguardo dei 150 nella Liga con la maglia blaugrana, 235 in tutte le competizioni. Il simulacro di Galeano sembra calzargli a pennello: «La palla lo cerca, lo riconosce, ne ha bisogno. Nel petto dei suoi piedi riposa e si culla. Lui le le dá lustro e la fa parlare, e in questo colloquio a due conversano milioni di muti…».
Ma da Montevideo, dove «vive, scrive e cammina», Eduardo Galeano non si limita a lodare il fuoriclasse argentino. Commenta pure l’infelice messaggio attribuito da Marca al c.t. della nazionale uruguaiana Tabarez, che ha mandato in bestia la tifoseria azzurra: Cavani dovrebbe lasciare il Napoli e giocare in Spagna o Inghilterra per essere consacrato nell’Olimpo del calcio. Lasciando intendere che la partenza sarebbe solo questione di tempo.
«Non credo che abbia detto una simile barbaridad», assicura Galeano. Tifoso del Nacional di Montevideo ed estimatore di Oscar Tabarez, che col suo lavoro paziente ha avuto il merito di «creare un clima che favorisce i miracoli», come al Mondiale di Sudafrica, lo scrittore acquieta gli animi partenopei con un pizzico della sua saggezza lapidaria, distillata via mail: «Non credo che il maestro abbia potuto dire un’assurdità del genere». Punto. All’autore di Specchi, nutrito del pallone assieme al latte materno e che, come tutti gli uruguaiani, avrebbe voluto essere calciatore, fa sorridere pure che gli siano attribuite doti vaticinatorie. Come quelle che avrebbe manifestato nel 2010, durante la sua ultima visita a Napoli, prevedendo le gesta del matador Edinson Cavani in maglia azzurra, che ha contabilizzato 57 gol in due anni. «Non ricordo di aver formulato questa profezia», sostiene. «In ogni caso mi sembra stimolante, perchè abitualmente mi sbaglio in ogni mia previsione e la pioggia mi trova sempre senza ombrello», si schernisce.
Il Napoli stravince, valanga azzurra ma anche latinoamericana, realismo mágico e magia da favola. Sarebbe lo stesso senza argentini come il Pocho, uruguayani come Cavani o anche Gargano, senza la fantasia di sudamericani come Miguel Angel Britos, Campagnaro, Cristian Chavez, Federico Fernandez, Camilo Zuniga? Il maestro de Le vene aperte dell’America Latina tace, ma rimanda a quanto scrisse a suo tempo sull’incanto del gioco: «Non sono che un mendicante del buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano supplicando ”una bella giocatina, per l’amore di Dio”. E quando il buon football avviene, ringrazio per il miracolo senza che mi importi un fico secco quale squadra o paese me lo offra».
Fonte: Il Mattino
La Redazione
P.S.
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