E come non si poteva cantare a squarciagola «Un giorno all’improvviso mi innamorai di te», come non si poteva? Il giorno era questo e il posto era qui, a Fuorigrotta, per una voglia di «remontada» che resterà scolpita nella memoria di una città che già dall’alba si stringeva la mano e si congedava con quattro sole parole: «E soprattutto forza Napoli». Un mantra, uno scongiuro che quando il gol del primo tempo di Mertens, il trottolino amoroso calato dal Belgio, ha prodotto un tuono stordente da «Cempiòns», come a dire, siamo a metà dell’opera.
Ma il palo, poco dopo, di Cristiano Ronaldo, è stato il primo forte brivido accompagnato dal sollievo di vedere che qualche volta la fortuna gira con il vento giusto. Ma un altro palo, per contrappunto, è toccato al piede di Dries. Pure la scalogna conosce il vento. I sessantamila del San Paolo hanno tirato dai polmoni tutto il fiato che avevano. O mo’ o mai cchiù. Quello residuo nei polmoni serviva a scaldare le mani nella gelida umidità di marzo. Il cuore era rovente e pulsante. Il risveglio porta il nome di Ramos. Tutto da rifare. I cori non si sono fermati. Neanche i fischi per Ronaldo in campo. Il sogno era un mormorio: s’arripiglia, s’arripiglia. Si presagiva l’epilogo che portava sempre la medesima firma: Ramos. Quattro gol da fare ai galacticos non sono una faccenda spicciola, sebbene si sia giocato un buon primo tempo. Toccava sorbirsi, così, con rispetto il canto e i battimani madrilisti. Arriba Espana. E un beffardo: «Arrivederci, eheh, ohoh». Solo in pochi si sono alzati e hanno preso la via di casa. Era un amaro calice da sorbirsi fino all’ultimo minuto, perché amaro è ‘o bene. E ancora una volta, con altro spirito, si poteva cantare «Un giorno all’improvviso», pure quando l’ex-juventino Morata siglava, al novantesimo, il soccio triste y solitario di Madrid. Le curve hanno comunque applaudito, compatte.
Meno male che ci si è goduto il prepartita interminabile, cominciato alla fine della trasferta al Santiago Bernabeu. I più scatenati avevano esaurito l’ultimo residuo di voce molto prima che Napoli e Real Madrid scendessero in campo. E per forza, due ore prima che cominciassero a scorrere i tornelli, quando nelle case ci si metteva a tavola, c’erano già le file ansiose e ansiogene davanti ai cancelli aperti alle tre. Alle cincos de las tarde, il clima all’interno del San Paolo era già da corrida. Fuori arrivavano a grupponi, dalla città (perché per accaparrarsi un posto decente non bisogna indugiare), dalla provincia e da dovunque batta sempre il corazon azzurro. Striscioni beneauguranti ispirati a Siani («Si accettano miracoli»), ma pure di appartenenza e identità: da Acerra a Monaco di Baviera, passando per Formia e Campobasso. Nella Curva A inferiore sventolava la bandiera rossa della Chinatown vesuviana. Quando, intorno alle otto, i blancos in mise grigia sono entrati in campo per saggiarlo con passaggi e palleggi sono partite bordate di fischi che si saranno sentiti almeno fino a Mergellina, come pure i cori antijuventini. Niente a che vedere con l’urlo per l’ingresso degli uomini di capitan Hamsik. Mentre sulle curve andavano in scena coreografie d’eccezione. Non solo l’abituale sciarpame. La «B» ha srotolato un megastriscione con il ciuccio e poi la scritta a caratteri cubitali: «… Ed ora affondiamola». La risposta della «A» è stato un altro striscione raffigurante un nutrito e agguerrito drappello di tifosi a guardia delle porte di Napoli, accompagnato da un incitamento bellico: «Per la difesa di queste mura c’è chi diede la propria vita… Oggi è una battaglia, non una semplice partita». Per come è finita, meglio una semplice partita.
Fuori è andato in scena il consueto bagno di folklore beneaugurante. Comunque fosse andata sarebbe stato un successo. Mai farsi scappare un prepartita con i fiocchi, che il postpartita costa bruschi risvegli. Chi si avviava al San Paolo non si è voluto perdere nulla. Selfie a raffica con gli spalti dello stadio alle spalle. In cerca di clienti non solo i venditori dell’immancabile Borghetti e della sambuca new entry, ma spacciatori di sciarpe e di ciondoli del ciuccio, con la novità della «vesparella di Mertens». Panini imporchettati e tavolate a base di birra e lupini, che sagra sia, senza risparmio e senza pudore. Un gruppetto di Sant’Anastasia porta il sostegno della Madonna dell’Arco, azzurra per l’occasione. Si aggirava uno Sciosciò, lo scartellato portafortuna del presepe per foto-ricordo a pagamento. Il clima è sempre sereno e sportivo, si sentiva qualche voce spagnola, ma nessuno sembrava badarci. Gli iberici più solerti erano disorientati, che si erano anticipati «Dònde està la entrada?» chiedevano e, alla fine sono entrati quasi mille e cinquecento.
Appostati in ogni traversa, anche oltre le transenne che sbarravano la strada alle auto, erano invece appostati, come predoni supplichevoli o intimidatori, chiorme di parcheggiatori abusivi. Al lavoro, nonostante il grande dispiegamento di forze dell’ordine. Qualcuno di loro confessava, spudorato, di aver lasciato la fatìca ufficiale (chissà poi quale sia) un paio d’ore prima, perché la giornata a presidiare i marciapiedi era da incassi record. Affari soprattutto con gli scooter. Per loro è andata benissimo. Sarebbe andata comunque benissimo.
L’arena verde per la corrida era stracolma, come si addice all’evento. E a vederla riempiva il cuore. Solo qualche macchiolina vuota ai margini dei distinti o nella parte più bassa delle curve. La tribuna d’onore, insieme ad Aurelio De Laurentiis e famiglia, al sindaco Luigi de Magistris, ospitava, insieme alle autorità locali, il ministro dello Sport, Luca Lotti (seduto alle spalle di DeMa), il presidente del Coni, Giovanni Malagò, il sottosegretario Gennaro Migliore, il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Presente anche il presidente della Lega nazionale dilettanti, Cosimo Sibilia. Ma il parterre del San Paolo era vario e abbondante e sparso dal magistrato Antonello Ardituro a Emilio Fede (con i giornalisti in tribuna stampa), agli attori Lello Arena e Peppe Iodice, gettonatissimo per i selfie. Spiccavano il mitico Rudy Krol e, come commentatore tv, Antonio Careca che nel 1987 era in campo contro un altro Real. Un altro Real e un altro Napoli. Neanche allora, e c’era Maradona, andò come andò. Da ora in poi toccherà essere realisti.
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