È arrivato a Gianturco il giorno dopo il trionfo contro il Manchester City e la sua presenza non è passata inosservata. Jeans, tenuta sportiva, un berretto con visiera. Ezequiel Lavezzi varca la soglia della Dia, entra negli uffici del gruppo di polizia giudiziaria dove lo attende il capocentro Maurizio Vallone. Scherza per qualche minuto con il barista che gli porta il caffé, si concede un paio di battute sulla prestazione del giorno prima, si limita ad alzare le spalle quando gli chiedono della fatica a realizzare un terzo gol, quello che avrebbe chiuso prima del tempo i conti con il City al San Paolo. Poi firma un paio di ricevute e può entrare in possesso di una decina di preziosi – tra orologi Rolex e gioielli – che erano finiti sotto sequestro nel corso dell’inchiesta Megaride, culminata lo scorso giugno in arresti di imprenditori e sequestri di ristoranti a Napoli e in altre città d’Italia.
Lavezzi ritrova i gioielli personali e la sua versione viene ritenuta credibile dai pm del pool anticamorra: nel corso di un interrogatorio come persona informata dei fatti, aveva raccontato l’abitudine di lasciare in custodia all’amico imprenditore Marco Iorio alcuni gioielli, per evitare furti o incursioni sgradite.
Chiusa la pratica Lavezzi, resta però aperto una sorta di giallo a proposito di altri orologi e altri gioielli (ma anche di custodie di orologi di valore prive di contenuto) trovati in una cassetta di sicurezza sequestrata nel corso del blitz della Dia dello scorso giugno. Una decina di oggetti preziosi, che per la Dda di Napoli sono riconducibili a uno degli imprenditori arrestati lo scorso giugno, nel blitz che ha colpito le famiglie Iorio e Potenza. Facile intuire la domanda che a questo punto si pongono gli inquirenti: se custodie e gioielli sbucati da una delle cassaforti sequestrate non sono di Lavezzi, a chi appartengono allora? Sul punto, gli inquirenti stanno accertando quanto dichiarato qualche mese fa dal boss pentito Salvatore Lo Russo. È stato lui, l’ex capoclan di Secondigliano a puntare l’indice sui rapporti tra il clan Lo Russo e alcuni imprenditori arrestati nel corso dell’operazione Megaride. Una traccia, nell’ottica degli inquirenti, che potrebbe svelare nuovi rapporti tra Chiaia e Secondigliano, nuovi volti, potenziali prestanome tra la borghesia imprenditoriale del centro cittadino e il crimine organizzato. Spiega il pentito: il mio parente Luigi Pompeo era solito consegnare in custodia orologi e gioielli a gente insospettabile, che mai avrebbe subito perquisizioni o sequestri. Storie tutte da approfondire, in attesa di una probabile versione difensiva che verrà resa a dibattimento, mentre si lavora sui circuiti che portano ai soldi. Riciclaggio aggravato dalla finalità camorristica è l’accusa più grave al termine della richiesta di processo spedita ai giudici dalla Dda di Napoli. Pochi giorni fa altri sequestri di quote societarie riconducibili a probabili prestanome. Altri cinque milioni di euro finiti sotto sequestro, con una decina di soggetti che vengono individuati come presunte teste di legno di quella che viene indicata come una massiccia operazione di bonifica del denaro sporco. Ci sono casalinghe, disoccupati, addirittura camerieri assunti in nero tra i possibili prestanome di quote minoritarie di un gruppo di ristoranti riconducibili ai fratelli Marco, Massimiliano e Carmine Iorio, ma anche all’ex contrabbandiere Mario Potenza e ai figli Bruno e Salvatore. Scenario che ora attende la valutazione di un giudice, nell’ambito di un processo destinato a portare in aula non solo esponenti del mondo imprenditoriale, ma anche funzionari e impiegati di banca, avvocati e contabili, tutti ritenuti a vario titolo capaci di ripulire soldi riconducibili alle piazze di spaccio, alle estorsioni e al mercato del falso della mala Napoli. Da Gomorra alle banche svizzere, passando per qualche pizzeria del Lungomare, tutto in un processo destinato a prendere le mosse nelle prossime settimane.
La Redazione
P.S.
Fonte: Il Mattino
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