Eccolo, infine. È tornato. In carne, ossa e tatuaggi. Eclissarsi, sparire, a volte fa bene. Anche soffrire può far bene. «Ho lasciato soli i compagni in un momento troppo importante, spero di non commettere un’altra volta certi errori», dice lui, quello che era sparito, quello che aveva sofferto per le tre giornate di squalifica, per lo sputo e per il silenzio in cui era piombato in questo mese senza campo, in cui non ha avuto neanche la possibilità, forse, di potersi scusare. Eccolo Ezequiel Lavezzi.
Ora che è tornato sembra una riconquista per tutti, nessuno lo dileggia più nel ricordo dei gol sbagliati col Villarreal. Oggi il Pocho è contento, ma non è gonfio solo di gioia. «Ormai è tutto passato, è stato uno sbaglio nei confronti dei miei compagni», dice riferendosi all’episodio dell’Olimpico. La sua assenza ha fatto capire quant’era importante, come succede ai grandi amori.
Un sentimento non retorico. Forse qualcuno se n’era scordato troppo in fretta: al Tardini l’hanno applaudito anche i tifosi del Parma. Il Napoli aveva nostalgia dei suoi colpi, delle sue accelerazioni, della sua capacità di saltare l’uomo e servire assist. E lui lì a fare il giocoliere, sull’erba emiliana. Ma non solo prodezze: botte, anche. E rincorse, e ovviamente il gol pizzicato dal suo piede destro. Parma è la notte magica di Lavezzi. È ancora un grandissimo. Punto.
Rivincita? Risposta per qualcuno? Contano le parole del Pocho a fine gara ma di più la partita. «Dobbiamo raggiungere traguardi importanti. Sono rientrato e sono contento. È un campionato strano, dove abbiamo la possibilità di raggiungere traguardi importanti». Lavezzi di questo Napoli è il campione più prezioso e fragile, un ragazzo che sembra in continuo viaggio verso se stesso.
Ma con lui in campo, è tutto un altro Napoli. Più che un tormentone, trovare nella rosa attuale degli azzurri un vice-Pocho è più che altro un tormento. Sosa, Mascara o lo stesso Zuniga non hanno nulla in comune con il talento dell’argentino. Inutile la caccia al sosia. Così come è un bluff volerlo travestire da prima punta. Nel tridente d’oro il Pocho deve giocare alle spalle di Cavani.
Al fianco di Hamisk e lasciandogli tutta la fantasia che vuole. Ieri per lui giornata di relax sul lungomare, in una pizzeria di via Partenope, con Gargano e le rispettive compagne, festeggiato dai proprietari e dai tifosi. Domenica incontra il suo secondo allenatore in Italia, Roberto Donadoni: con lui un rapporto strano.
L’ex milanista non era innamorato del suo estro e del suo modo di stare in campo: «È tatticamente un disordinato», sentenziò. Ma forse si deve proprio alle mediazione e alla serenità dell’ex ct se il Pocho non lasciò l’Italia dopo le sfuriate dell’estate 2009 di De Laurentiis nel ritiro austriaco di Lindabrunn: «Lui non è Maradona, se non fa l’atleta, può andar via», urlò il patron stufo di alcune bizze dell’argentino.
Ci volle tutta la pazienza di Donadoni per ricucire lo strappo, per convincere il presidente che Lavezzi era fondamentale per il gioco del suo Napoli e riuscirlo così a trattenerlo. Il Pocho rimase e giocò sempre, anche perché il suo vice era un tal Hoffer, oggetto misterioso sotto il Vesuvio ma lo stesso che ora in Bundesliga segna spesso con il Kaiserslautern. L’avventura di Donadoni durò fino a ottobre, quando a condannarlo fu una sconfitta con la Roma.
Fonte: Il Mattino.it
La Redazione
S.D.
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