Torna, come ogni settimana, “La Storia” di IamNaples.it. Oggi, mercoledì 21 maggio 2014, abbiamo deciso di proporvi quella di Rosario Campana, il “Ferguson del Borgo Orefici”. Il tecnico, appena conclusa la sfortunata esperienza (di circa tre settimane) sulla panchina del Real Vico Equense (retrocesso domenica scorsa in Eccellenza dopo la sconfitta play-out col Grottaglie), ci ha accolto con la solita disponibilità e con la simpatia che spesso gli ha permesso di affrontare con arguta filosofia i momenti meno rosei. Dai primi calci mossi al pallone per strada al “miracolo CTL Campania”, passando per il Real Vico e la squalifica, questo caffè ci permette di conoscere, dietro il profilo di un tecnico apprezzato, una persona con pochi peli sulla lingua, a dir poco apprezzabile in un mondo, quello del pallone ancora a “pezze”, spesso non così ‘limpido’.
– Rosario Campana, dopo il “miracolo CTL”, non è riuscito il bis col Real Vico Equense e domenica scorsa il sodalizio costiero è retrocesso in Eccellenza.
Dispiace, sicuramente. A nessuno piace perdere, anche quando entri in ballo a giochi già fatti. In tre settimane ho dato tutto me stesso per le persone che mi hanno voluto, ma a quanto pare il massimo non è bastato. Ci ho messo passione ed entusiasmo, come al mio solito ed ho trovato anche un gruppo propositivo. Rispetto ad inizio stagione, però, i vari Martone, Russo o Corsale, per fare dei nomi, avevano lasciato la squadra. Al mio arrivo, poi, ho dovuto fare a meno anche di giocatori come Coppola, Cirillo, Iovene e Loffredo. Questa non vuole essere una giustificazione, ma una semplice costatazione.
– In effetti, la specialità della casa è la programmazione. Nei sei anni di CTL Campania, per esempio, ha dimostrato quanto essa possa fare la differenza.
Al Campania ho passato sei anni indimenticabili con persone squisite come il presidente De Micco. Partimmo dal basso, ma con una buona empatia finalizzata ad un’ottima organizzazione e cura di ogni minimo dettaglio riuscimmo a fare grandi cose, cose che, nel mentre, non parevano così grandi.
– In quegli anni, oltre al lato tecnico, si è fatto apprezzare per un certo acume manageriale. Per molti era il “Fergsuon del Borgo Orefici”.
Piano (ride ndr). Scherzi a parte, in quegli anni mi fu molto d’aiuto il rapporto di stima e sinergia creatosi con la dirigenza. Al primo anno in Promozione ci allenavamo spesso di sera, facendo docce fredde e con illuminazione approssimativa, ma al contempo riuscivamo ad ovviare questi limiti logistici con grande spirito organizzativo e lungimiranza. Da lì mettemmo le basi per arrivare, in quattro stagioni, al semi-professionismo della D. Ed anche lì abbiamo sempre detto la nostra. Ricordo che il nostro motto era dover fare un punto in più di quello che le nostre possibilità ci avrebbero permesso. Tutto ruotava con una sinergia invidiabile: tutti, a partire dai magazzinieri, passando per ogni membro dello staff societario e tecnico ed arrivando ai giocatori, remavano nello stesso senso. Magazziniere, massaggiatori, medico sociale, addetto stampa, tutti erano importanti. In campo, poi, cercavamo giocatori particolari, i cosiddetti “da outlet”.
– Può tracciare l’identikit di un giocatore ‘da outlet’? Cosa intende?
Il giocatore ‘da outlet’ è un giocatore che, pur avendo qualità morali e calcistiche, per un motivo o per l’altro è in svendita. Sia ben chiaro, non parlo di giocatori ‘da discount’, dove puoi incotrare i cosiddetti ‘scarti’, ma di uomini che hanno voglia di dimostrare le loro qualità ma, vuoi per un infortunio, vuoi per un’annata no, si ritrovano un po’ ai margini. Ecco, allenare quel tipo di calciatore, per me, è il massimo. Il giocatore da outlet, con la voglia che ha, spesso riesce ad andare un punto oltre le sue possibilità.
– Dietro al ”miracolo CTL” c’era però anche un settore giovanile niente male.
Ovvio, sempre per tornare al discorso di prima, sono dell’idea che alla base di ogni progetto lungimirante ci debba essere grande cura del settore giovanile. Anche la nostra juniores si è sempre piazzata in alto nei campionati di categoria.
– Per riallacciarci al lato organizzativo del progetto di una squadra, lei che rappresenta un vero e proprio ‘manager’ di provincia, quando ha capito che il suo posto era in panchina e non in campo?
A circa 28 anni. Giocavo da centrocampista, ma essendo molto critico in primis di me stesso, mi accorsi che non avrei potuto gareggiare a livelli professionistici e che quindi non era il caso di continuare col calcio giocato. La mia passione per lo stesso ed il fatto che avessi un po’ nell’indole il fatto di dover dare direttive ai compagni mi ha fatto pensare di sedermi in panca. Esperienza totalmente diversa da quella di giocatore. Quando giochi ti metti a servizio della squadra, ma può capitare di anteporre, anche inconsciamente, il bene del singolo a quello del team. Da allenatore è impossibile: devi limare mille dettagli e far sentire al centro del progetto tutti i membri dello staff societario e tecnico, non solo i giocatori. Pure quando dai la formazione, non devi fermarti al semplice modulo o ai numeri: le motivazioni, ovviamente abbinate ad un’adeguata bravura calcistica, fanno la differenza. Non esiste un modulo vincente, ma devi essere bravo a renderlo tale grazie agli interpreti, che devono avere sempre l’autostima a mille per trarre il meglio da ogni singola situazione.
– Il Campania è stata la sua prima esperienza?
No. Ho iniziato in Toscana, nei pressi di Empoli, in una squadra satellite dell’Empoli stesso. Poi dopo un periodo di inattività, verso i 35 anni, sono passato alla Napoli Centrale. In due anni abbiamo vinto i campionati di seconda e prima categoria. Nel 2007, poi, è arrivata la chiamata di De Micco ed è iniziata la favola Campania. Negli ultimi due anni, poi, è arrivato in società il ds Marco Mignano, uno che alle luci della ribalta, preferiva la sostanza dello stare dietro le quinte. Un altro grande personaggio con cui ho condiviso un percorso.
– Una favola che ha avuto apici fantastici.
Sì, ma il mio modo di fare e pensare mi dice sempre che il momento più bello sarà domani, deve ancora venire.
– A momenti belli, come in ogni cosa della vita, si saranno sicuramente opposti momenti meno belli, vedi la squalifica.
Un brutto momento, ma non di sicuro il momento più brutto. Per quanto importante nella vita di tutti noi, il calcio è pur sempre un gioco: le cose davvero brutte, tristi, tragiche sono altre. Ed il momento più brutto della mia carriera coincide col periodo della morte di Emanuele, un ragazzo speciale di 15 anni, il nipote del presidente De Micco ed uno dei motivi principali per cui il presidente aveva deciso di entrare nel mondo del calcio. Manu era spesso con noi agli allenamenti e grazie al calcio, una delle sue più grandi passioni, affrontava le giornate col sorriso. Fu un momento tristissimo per tutti, ma ora abbiamo un angelo che veglia su di noi.
– A confronto, giustamente, la squalifica è cosa da nulla.
Ovvio, anche se lì ricevetti un trattamento che non credevo di meritare. Prima di una partita col Matera, tre nostri giocatori (all’epoca allenava il CTL Campania ndr) furono avvicinati da dei loschi tipi per pilotare la partita. Trematerra, Baratto e Russo, i giocatori in questione, vennero da me e mi riferirono l’accaduto ed io, come da prassi, comunicai il tutto al presidente De Micco. Quando tornammo a casa il presidente denunciò tutto alle autorità competenti, ma fummo tutti squalificati per omessa denuncia. Quando arrivò la chiamata della Lega, credevo Prandelli volesse chiamarci in Nazionale come fatto con Farina e Pisacane, invece subimmo questa grande ingiustizia. Sei mesi di squalifica. E la cosa triste è che se fossimo stati davvero zitti, non sarebbe successo nulla. Per colpa della squalifica sono stato sei mesi fermo ed ho dovuto dire no a molte offerte, tra cui una della Serie B maltese.
– Quindi, se dovesse ricapitare qualcosa del genere, stavolta resterebbe zitto.
No. Anche se il sistema, per il suo modo di agire, consiglia un comportamento omertoso, per come sono fatto, per il grande odio che provo verso il sopruso, non potrei mai stare zitto.
– Torniamo al calcio giocato, ha seguito le vicissitudini del Napoli quest’anno?
Ovvio. Il Napoli è la massima espressione del calcio delle nostre zone, ci rappresenta a grandi livelli. Sono molto contento dell’arrivo di Benitez, credo sia un grandissimo allenatore che, al di là di ogni risultato, ha fatto una gran cosa: regalato alla squadra una mentalità. Il Napoli è una squadra propositiva e quando la gente guarda le gare degli azzurri si diverte. Certo, a volte non si vince: ma in competizioni così ad alto livello come la Serie A o le coppe europee le difficoltà sono dietro l’angolo ed una gara può essere decisa da un episodio. Inoltre il 4-2-3-1 è uno dei moduli nei quali più rispecchio il mio credo tattico, anche se, come anticipato, i moduli, da soli, sono fini ad essi stessi.
– E sul settore giovanile?
Quella è un po’ la pecca. Si dovrebbe credere molto di più sulle potenzialità calcistiche delle nostre zone. La periferia di Napoli vedi Piscinola, Secondigliano o Scampia, è il Brasile d’Italia. Lì ci sono giovani talenti a iosa e molto spesso il fatto che non possano essere seguiti li fa perdere. Molti vedono nel calcio una via d’uscita e, una volta ostruitasi questa via, troppo spesso capita che finiscano in brutti giri. Il Napoli potrebbe valorizzare questa splendida risorsa del nostro territorio, magari sovvenzionando le tante scuole calcio che tolgono questi ragazzini dalla strada. La Campania è una delle regioni che ha dato più professionisti al nostro calcio. Perché? Perché il bambino napoletano cresce un giorno prima del resto degli altri bambini, deve imparare a cavarsela e sviluppa qualità che in un gioco come quello del calcio fanno la differenza.
– Dove si vede Campana nel futuro prossimo?
A lavoro, a giocarmi una nuova sfida, a fare la cosa che più amo al mondo dopo la mia famiglia.
In bocca al lupo, Sir.
A cura di Mirko Panico
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