Su Romanzo Sudamericano potrete conoscere tutta la storia del Pipita, qui quella del centrocampista della Fiorentina che Sarri tanto vorrebbe avere ancora con sé dopo l’esperienza all’Empoli…
La vita di Matías Vecino cambiò un giorno del 2011, a oltre duemila metri sul livello del mare. In Perù Neymar e Lucas incantavano le decine di osservatori che seguivano dal posto il Sudamericano Sub 20, il torneo giovanile per nazionali più importante dell’America Latina. Ma la squadra che fece parlare di più di sé fu l’Uruguay. Vecino fu uno dei cardini di quella Celeste, fino alla sconfitta per 6-0 contro il super Brasile che costrinse lui e i suoi compagni ad accontentarsi del secondo posto nella manifestazione. Ma tre giorni prima l’Uruguay aveva sfidato l’Argentina nel Clásico del Rio de la Plata. Vecino, con un gol fantastico, regalò la vittoria alla sua nazionale, che ottenne così anche il pass olimpico per Londra 2012. Ma fece molto di più.
Per lui scoppiò una guerra tra Nacional e Peñarol, le due potenze del calcio uruguagio. Il Peñarol annunciò la chiusura della trattativa, ma alla fine a comprare il giocatore fu il Nacional, che qualche tempo dopo Vecino avrebbe salutato con un gol al 90′ nell’1-0 sui Wanderers, qualche ora prima di prendere l’aereo per l’Italia.
Al tempo del Sudamericano Sub 20 Vecino giocava per il Central Español. Una delle squadre di Montevideo, fondata nel barrio Palermo, motivo per cui i suoi giocatori vengono chiamatiPalermitanos. Il primo “legame” calcistico di Vecino con l’Italia nacque proprio lì. E infatti il nome del quartiere, situato nella zona sud di Montevideo nei pressi della sponda uruguagia del Rio de la Plata, deriva da una bottega di immigrati siciliani che chiamarono la loro attività “Magazzino di cibo della nuova città di Palermo”.
Ma come suggerisce il suo cognome, anche le origini familiari di Vecino sono proprio italiane. E infatti da ragazzino viveva a San Jacinto, a una cinquantina di chilometri da Montevideo: unpueblo, un paesino con meno di cinquemila abitanti, fondato da immigrati italiani che si dedicarono alla coltivazione del grano e della vite. Come molti pueblos dell’Uruguay, San Jacinto ha le sue scuole, il suo municipio, la sua Chiesa, la sua ampia piazza e la sua cancha. Il suo campo da calcio, che però tutti chiameranno per sempre stadio. E la sua squadra, El Rojo, che fu quella in cui Matías inventò le sue prime giocate. Lo portò nel club il padre Mario, che fu giocatore anche del Liverpool di Montevideo, storica società nata in onore del Liverpool inglese, che in Italia abbiamo conosciuto quando la Lazio acquistò da quel club Emiliano Alfaro. Mario era dunque una vera autorità cittadina.
La madre Doris, professoressa di inglese, fu però chiara da subito con Matías: se voleva giocare doveva studiare. E quantomeno arrivare al diploma. Matías la prese in parola e da bambino venne premiato tra gli studenti più meritevoli con il Pabellón Nacional, che altro non è che una grande bandiera dell’Uruguay. La piazzò a sventolare fuori dalla finestra della sua stanza, per vederla sempre sognando di difenderla nel mondo quando usciva nel cortile con la pelotauna volta finiti i compiti. E così seguì il suo cammino, fin quando, quattordicenne, perse il padre: ucciso da un incidente stradale mentre andava a lavoro. San Jacinto perse il suo idolo e referente futbolistico. Quando gli intitolarono lacancha di 800 spettatori, che ancora oggi si chiama Estadio Mario Vecino, nessuno immaginava che Matías sarebbe diventato il campione che avrebbe fatto conoscere al mondo l’esistenza di San Jacinto.
Ma da quel giorno del 2011 in cui segnò il gol qualificazione per Londra 2012, tutti capirono quanto grande sarebbe diventato quel ragazzo che ha escluso la convocazione dell’Italia perché sperava e spera ancora di farsi notare da Tabarez e vestire la maglia Celeste della nazionale maggiore. Magari partendo dall’Azzurro del Napoli…
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