Aveva ragione lui, Eduardo Chiacchio. 58 anni, esperto in diritto sportivo con studio al Centro direzionale, dal 2004 più di un migliaio di club e tesserati nei vari processi al calcio italiano che puntualmente si tengono.
Lo aveva detto fin dal primo istante che la chiave di tutto, l’assist per far assolvere il Napoli, era riuscire a convincere i componenti della Corte Federale a derubricare il reato di Gianello da tentato illecito a slealtà sportiva. Quasi una illuminazione, la sua. Nata subito dopo aver incassato una brutta delusione: al Parco dei Principi, il presidente della Disciplinare respinge la proposta di patteggiamento per Matteo Gianello. «Mi ero messo d’accordo con Palazzi: avevo pattuito 16 mesi e il riconoscimento del tentato illecito. Non un’ammissione di colpa, ma un modo per uscire di scena dal procedimento subendo meno danni possibili. Se avessero accettato non avremmo neppure presentato ricorso».
Ma la Disciplinare non ci sta e dice di no. «Gianello non è stato mai collaborativo, ha solo ammesso ciò che non poteva essere smentito. Non può beneficiare del patteggiamento». Da lì a qualche ora la strategia di Chiacchio cambia. «A quel punto capisco che le vie di uscita per il mio assistito sono molteplici e mi appello alla violazione ex articolo 1 dei principi di slealtà sportiva». In primo grado va malissimo: per Gianello la condanna è a 3 anni e 3 mesi per tentato illecito. Tentato illecito per cui scatta la responsabilità oggettiva del Napoli e la penalizzazione in classifica. Ieri l’arringa di Chiacchio sgombra ogni dubbio: «Non si evince dagli atti di questo processo che un comportamento illecito, pur pensato da Gianello, abbia valicato la sfera personale». In pratica, pensa di poter guadagnare dei soldi combinando il match, magari cade pure nella tentazione ma non riesce ad attuare l’illecito.
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
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