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La fidanzata del Pocho e la città masochista

Non c’è sussurro che a Napoli non diventi grido, non c’è grido che a Napoli non si trasformi in allarme, non c’è allarme che a Napoli non inviti alla fuga. E non c’è rapina che a Napoli non accusi la città di essere tutto ciò che il mondo rifiuta di essere. Adesso tocca a Yanina, la fidanzata di Lavezzi, dopo essere stata derubata di un rolex, insultare la città ridotta a una deiezione, per usare un termine caro tanto ai gastroenterologi che, anche se con altre funzioni, ad Heidegger (Geworfenheit). I napoletani, anche dopo le sue scuse, hanno subito appoggiato e sostenuto le imprecazioni della fotomodella. Ma è noto che noi siamo sempre tra i primi ad accorrere in soccorso dei nostri denigratori, direi che è una perversione congenita, come uno storpio che, nel tentativo di muovere a compassione e sentirsi meno invalido, approva le offese che gli vengono rivolte purché si veda escluso dall’infermità. Non voglio mettermi a fare l’elenco dei calciatori rapinati altrove per assolvere parzialmente la città, occuperebbe l’intero articolo, ma quello che oggi inquieta tutti è soprattutto l’ipotesi che ci sia un piano eversivo contro il Napoli Calcio. Furto in casa Cavani, rapina auto moglie Hamsik, rapina orologio compagna di Lavezzi, furto dell’auto di Aronica. C’è chi, ricordando lo scudetto perso contro il Milan tanti anni fa, ritiene che la camorra (nera teodicea di ogni fatto grave inspiegabile e ottima spiegazione pure per giustificare un ritardo a scuola) voglia intimidire i calciatori più prestigiosi per non fargli superare il turno di Champions, che la costringerebbe a pagare tanto. Il questore, invece, ritiene che si tratti di episodi di micro delinquenza, atti fortuiti senza nesso tra loro. Sembra di essere davanti a un paragrafo della teoria della sincronicità di Jung, che vede in episodi accidentali una interdipendenza che supera la loro casualità. Teorie, sospetti, paure. Non so quanto ci sia di vero, ma certo Napoli ha una capacità di prendersi a morsi da sola che non ha paragoni. Qualunque bene vuole la sua parte di male, sembra dire, e se poi il male lo ricopre, non importa, perché è nella sua natura di città abituata alla sconfitta abitare il torto. Il procuratore di Lavezzi, con tempismo da rapace, lamentandosi della vita da recluso a cui è costretto il calciatore argentino, ha subito cercato di trasformare in ulteriore conguaglio il contratto del suo assistito. “Napoli non è una città sicura”, afferma giustamente, e mi chiedo come mai se ne ricordi solo adesso e non cercò a suo tempo di dissuadere Lavezzi dall’accettare l’offerta del club partenopeo. Il problema è che, al di là della generica ipotesi camorra, i calciatori e i loro parenti hanno perso qualunque sacralità, per quanto amati, esaltati, viziati. Non sono più intoccabili, fanno parte del male comune e, anzi, luccicano pericolosamente. C’è, dunque, una visione più laica e disperata. Nessuno può sentirsi sicuro, nemmeno chi pretenderebbe la garanzia dalla violenza in campo e fuori, come se un arbitro imparziale dovesse sempre guidare ognuno verso una giustizia a cui non siamo abituati. Quindi se siamo un città di merda, come in un primo momento ha rabbiosamente detto Yanina, è bene che ne sentiamo la puzza, perché se dovessimo smettere di percepire anche la differenza di odori, non saremmo più in grado di distinguere i nostri stessi gesti. Purtroppo, come canta Jeff Buckley, “la finestra aperta lascia entrare la pioggia” e alla stanza (la nostra città) non sarà risparmiato niente: umido, muffa, infiltrazioni. Io, comunque, non sono mai per la resa, e continuo a credere che nel corpo, teso come una preghiera, di Cavani che corre dopo un gol ci sia la follia di una città che non sa salvarsi dal male ma non riesce a fare a meno del bene, per quanto troppo spesso le sembri più un’afflizione da cui guarire che uno strano vizio di cui ogni tanto ancora si ammala un uomo.

 

La Redazione

P.S.

Fonte: Il Mattino

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