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La favola di Insigne, il talento che faceva il venditore ambulante

Aveva otto mesi quando ricevette il Battesimo nel Santuario della Madonna dell’Arco a Sant’Anastasia, un neonato grosso quanto un bambino di un anno. Lorenzo Insigne, secondogenito di Carmine e Patrizia, fece già parlare di sè quel giorno. Pianse senza interruzione perchè voleva mangiare dolci e rustici del buffet preparato per amici e parenti. Così piccolo e già così goloso, era avanti il bambino predestinato. Col cibo, appena adolescente, è dovuto scendere a patti. Solo pesce e proteine, la tendenza a mettere qualche chilo in più, lo teneva e lo tiene a regime. «Al Battesimo glieli dovemmo dare, i dolci», ricorda (cuore) di mamma Patrizia. In molte fotografie della sua infanzia addenta panini, pizzette e graffe. «Bocca piena e palla al piede», i condomini di via Rossini a Frattamaggiore (le palazzine) lo ricordano così. Lo rivivono bambino come il rompiscatole che giocava a calcio nei viali del condominio alle tre del pomeriggio. «Mi richiamavano tutti», sbotta mamma Patrizia. Una donna semplice allora, umile allora. Uguale oggi. Capelli raccolti in una coda, bermuda e maglietta. Neanche un filo di trucco, di una spontaneità quasi imbarazzante. Attorno a lei, nella casa di sessanta metri quadrati, ci sono i figli maschi, il marito Carmine. Eppoi, lo zio, la zia Pina. Il signore del piano di sotto, l’amico di Lorenzo. L’amico dell’amico. Tutti pronti a raccontare, a ricordare aneddoti. A stupirsi ancora, a rabbrividire pensando al percorso del campioncino, diventato grande con un maestro di nome Zeman e oggi alla corte di Mazzarri a Napoli. Quel giorno battesimale di marzo del 1991 era la prima volta di Lorenzo in chiesa. Ne è seguita solo una seconda, il giorno della comunione. «No, non ne vuole sentire parlare». Per lui c’è stato e c’è solo il campo. Neanche troppi amici, troppi divertimenti. La prima volta in discoteca è stata la primavera scorsa a Pescara. Possibile? Una bravata l’avra pur fatta, il Lorenzo ragazzino? Scuote il capo, papà Carmine. «Una volta si chiuse il pollice in un cancello. Si staccò una falange. Gli dissi, pensando all’assicurazione, mi raccomando l’hai rotto con lo sportello dell’auto. Dirai così. E lui, aveva cinque anni, mi guardò e disse: sì, papà, è stato il cancello. Capii allora che non aveva malizia. E che neanche gli sarebbe venuta». Sguardo vivo, papà Carmine, ma severo. Con una mission importante per i suoi figli: farli crescere calcisticamente. Antonio, Lorenzo, Roberto e Marco: quattro fratelli, quattro calciatori. Lorenzo ce l’ha fatta, Roberto gioca nella Primavera del Napoli, Antonio in eccellenza ad Orta di Atella e Marco segnerà la rinascita della Frattese. Ragazzi spigliati, solari. Ragazzi educati. Il più grande, Antonio (24 anni): «Ho insegnato io a Lorenzo a calciare. Giocavamo insieme quaggiù – indica

dal balcone lo slargo sotto il palazzo – e ce le siamo fatte tutte le terre qui intorno. Lorenzo perdeva con me, e piangeva. Aveva neanche sette anni e non ammetteva sconfitte. Io ridevo, poi baravo. Lo facevo vincere così non ero costretto a sentirlo ». Nella casa, piccola, della famiglia Insigne c’è pure Pocho. E’ il cane di Lorenzo, naturalmente. Pocho come idolo? No, no. L’idolo è Del Piero. «Non è un caso – spiega il suo procuratore Antonio Ottaiano – Alex è stato un campione di correttezza, così come Lorenzo vuole essere. Gli esempi sono importanti ». Del Piero come top player cui ispirarsi? Un altro no. «Io sono Lorenzo e basta», ripete più volte il giovane talento azzurro. Quasi sfrontatezza, la sua. La stessa che ha messo in campo sin dal primo torneo con la scuola calcio di Grumo Nevano (aveva otto anni). «Quel giorno non lo volevano in campo – racconta il suo migliore amico Antonio D’Errico – era troppo piccolo di statura. Il presidente di quella scuola gli disse: il pallone è più alto di te, ma dove vuoi andare? Insistemmo tutti, guardatelo almeno. Lui si convinse e dopo averlo visto cinque minuti palleggiare, esclamò entusiasta: «Ma dove l’avete preso questo nanetto?». Antonio e lui si erano conosciuti nelle palazzine. Avevano quattro anni. «Siamo andati a scuola insieme, elementari medie e ragioneria, io ero un anno avanti. Lorenzo si è fermato al primo delle superiori, io ho continuato. La scuola non gli piaceva, più le assenze che le presenze. E quando stava in classe era insofferente. Usciva nei corridoi e fischiava. Era il nostro segnale, uscivo anch’io ». Le interrogazioni poi, una tegola da evitare. Raffaele Strocchia era uno dei suoi prof. Insegnava all’epoca Economia aziendale all’istituto Filangieri. «Non ha mai studiato – dice – eppure ogni volta che lo interrogavo non stavamai zitto. Certo, non che mi dicesse la lezione. Ma si serviva della sua intelligenza. E provava ad arrangiarsi. Qualcosa diceva sempre. Noi docenti, alla fine, lo premiavamo per questo. Sapevamo che nella sua testa c’era altro. Sapevamo anche noi che sarebbe diventato un campione». A casa Insigne bisognava fare sacrifici per sbarcare il lunario, papà operaio e per giunta precario. Lavorava scarpe in una fabbrica che poi chiuse. Da disoccupato doveva arrangiarsi. «Ci ha aiutati mia madre – dice la signora Patrizia – quando i bambini erano piccoli vivevamo con lei nel palazzo di fronte. Non ci mancava niente». Ma c’era da coltivare il sogno di Lorenzo, che chiedeva in continuazione scarpe e palloni. E allora si lavora tutti. Lorenzo almattino faceva l’ambulante: vendeva abiti al mercatino di Frattamaggiore con la stessa umiltà e caparbietà con la quale al pomeriggio correva ad allenarsi. Le scarpe «R9» di Ronaldo furono il primo regalo che fece a se stesso e al fratello Antonio. «Le avevamo solo noi, che soddisfazione». Aveva quattordici anni e stava per coronare il suo primo traguardo: le giovanili del Napoli. A quell’età i ragazzini anche un po’ bulletti di un rione popolare come quello delle palazzine, vanno in motorino, si riuniscono al bar. Si divertono con le ragazze. Lorenzo, il timido Lorenzo, rinunciava volentieri a tutto questo. Si accontentava di qualche uscita al bar con l’amico Antonio. Il motorino l’ha poi avuto un anno dopo. Primavera del Napoli, primo vero contratto. «Me lo chiese – ricorda il padre – ed io lo accontentai. Ma solo giri qui intorno, non volevo che tornasse tardi, che si allontanasse». Tra papà Carmine e Lorenzo il rapporto è speciale. Si capiscono con lo sguardo: «Non c’è stato quasi mai bisogno di alzare la voce, lui sapeva quando era no». Timore e rispetto verso Carmine, immutati nel tempo. Oggi Lorenzo guadagna, eppure se deve acquistare qualcosa chiede il permesso. Dal telefonino al computer ad una semplice maglietta: «Papà, che dici posso prenderlo?». Dall’altra parte la dignità di un padre disoccupato che continua a darsi da fare con lavori precari «perchè non posso prendere lo stipendio che mi passa Lorenzo». La casa è davvero piccola, un soggiorno con angolo cottura, una cameretta e il bagno. «Di sera – aggiunge mamma Patrizia – si trasforma in dormitorio. Apriamo i letti per i ragazzi. Siamo cresciuti così, stiamo bene insieme. Siamo contenti. Lorenzo vuole continuare a stare con noi». La porta d’ingresso al primo piano di via Rossini è sempre aperta, le visite sono continue. Deve arrivare Lorenzo, però. E appena entra, nel soggiorno cala il silenzio, quasi in segno di rispetto al campione che deve pranzare per poi andare ad allenarsi. Nel giro di qualche minuto vanno via tutti. La privacy a Lorenzo nessuno la toglie. Si chiude casa Insigne o Insigna così come è scritto sulla targhetta di ottone. «L’aveva fatta fare mio suocero la sbagliarono e lui non sapeva leggere. L’ho lasciata lì per rispetto». Il valore di una famiglia perbene e rispettosa. La genuinità di genitori nati poveri ma dignitosi, l’educazione rigida data ai ragazzi, tutti calciatori. L’amicizia sincera di un procuratore, Antonio Ottaiano, con il quale il rapporto va oltre il lavoro. Il silenzio timido di Lorenzo che ora ha anche un’auto, la minicooper. Che ha acquistato per la prima volta un borsello di Vuitton. E che come molti suoi colleghi ama i tatuaggi. Ne ha dieci: il primo, il suo nome sul polpaccio; l’ultimo, un cuoricino al polso. Lui e la fidanzatina Genny: stesso posto, stesso simbolo.

Fonte: Monica Scozzafava per il “Corriere del Mezzogiorno”

La Redazione

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