La colpa, il merito. Matteo Gianello, il terzo portiere del Napoli che ha portato il club partenopeo alla sbarra sportiva, l’ha in pratica poi fatto assolvere (e con la società anche Cannavaro e Grava). Lo scrivono i giudici della Corte federale che hanno giudicato in seconda istanza l’appello contro la squalifica per sei mesi dei due difensori di Mazzarri, il -2 in classifica e i tre anni e tre mesi per Gianello. «Gli appelli vanno riuniti per ragioni di connessione oggettiva (…) il che implica «una trattazione unitaria della vicenda, il cui punto di partenza non può che individuarsi nella posizione dell’appellante Gianello». Ecco, da questo momento in poi, nelle dodici pagine di motivazioni il nomi del Napoli, di Cannavaro e di Grava spariscono. Perché la pietra d’angolo è Gianello e la tesi portata avanti dal suo avvocato, Eduardo Chiacchio. Scrivono, ad un certo punto, i giudici, dopo aver “demolito” l’ex terzo portiere partenopeo (si parla di «crisi di credibilità, serietà, uniformità, armonia» nelle sue dichiarazioni): «alla medesima conclusione perviene, peraltro, lo stesso appellante nell’atto di impugnazione». L’avvocato Chiacchio lo aveva (metaforicamente) urlato: non c’è illecito, comportamento non sportivo sì, ma non illecito. E così Gianello e le sue dichiarazioni diventano il fulcro della sentenza che ha assolto il Napoli, Cannavaro e Grava (nei loro confronti, dice la Corte federale, «manca la prova adeguata che sussistano elementi o condizioni idonei a far sorgere l’obbligo di denuncia di fatti disciplinarmente rilevanti») dall’accusa di illecito. Resta, ed è scritto, la responsabilità oggettiva. Che andrà ripensata, ma non scomparirà.
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
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