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Juary: “Indimenticabili gli anni ’80 ad Avellino. Questa squadra può salire in A, ha Rastelli”

C’era una volta. Perché le favole cominciano sempre così. E poco importa se ieri si beveva il caffè al bar con l’attaccante-idolo e oggi si parla solo a mezzo Twitter, perché ad Avellino, la città con il cuore a forma di pallone, dopo la vittoria nel derby con la Juve Stabia è cominciata una settimana profumata di sogni e di amarcord. Lupi con la coccarda, felici, primi in classifica in Serie B dopo ventitré anni e mille peripezie; titolari di un trono dei miracoli dopo quattordici giornate, insieme con il Palermo e l’Empoli, e sognatori ad occhi aperti. Olimpionici di dorso: si nuota a ritroso, da queste parti, e negli occhi sfilano le gesta di Tacconi, Favero, Barbadillo, Vignola, Carnevale. E poi la danza della bandierina di Juary, il mito. «Che tempi, che spettacolo». Gli Anni 80. L’epopea del grande Avellino di Vinicio, 8º in A, e della legge del Partenio inespugnabile. La gioia, l’ingegno, i paradossi, l’omaggio a Cutolo e le lacrime versate sulle ceneri del terremoto. «Avellino è la mia casa. Tutto è indimenticabile: non avrebbe prezzo rivedere la squadra in A».

IL MIX – Juary Jorge dos Santos Filho detto Juary, il danzatore brasiliano che giocava in attacco, oggi ha 54 anni e continua ad emozionarsi. Sempre. Comunque. «Sono il tifoso più felice: nessuno avrebbe immaginato che, dopo tre mesi, la squadra si sarebbe ritrovata al 1º posto, e considerando che l’obiettivo iniziale era la salvezza, credo che per puntare alla promozione sia necessario rinforzare la rosa a gennaio». Si può sempre migliorare: «Per ora il mix è vincente: la società, il tecnico, la squadra e soprattutto un popolo di tifosi speciale. Unico».

COME NOI – L’album dei ricordi e il gioco delle rette parallele: ieri le vittorie in A, oggi la vetta della B. «Guardo sempre le partite, ma finora non sono mai andato allo stadio: il progetto di Taccone è solido, lo dicono i numeri, e anche Rastelli si sta confermando bravissimo. E’ un piacere guardare la sua squadra giocare: per grinta, per spirito di sacrificio e generosità ricorda molto il mio Avellino. Sì, in questo senso sono due gruppi simili». E chi è il Juary di oggi? «Non c’è. Almeno non ancora. Però voglio fare i complimenti ad Arini, mio allievo nell’Aversa Normanna: oggi ne parlano tutti, per me non è una sorpresa».

CHE NOSTALGIA – Due anni da calciatore lupo in A, dall’80 all’82, poi l’Inter, la Coppa dei Campioni conquistata con il grande Porto pigliatutto dell’87 – con tanto di gol decisivo in finale con il Bayern – e il ritorno in borghese in Irpinia. Da allenatore delle giovanili – anche del Napoli, successivamente – e da cittadino semplice. «Sono andato via tre anni fa e, dopo aver allenato il Sestri Levante, da marzo sono libero. Vivo a Gallarate, ma sono sincero: un giorno spero di tornare ad Avellino, mi manca. Mi mancano gli amici e l’affetto della gente». E anche il club: «In estate ho avuto qualche contatto per la panchina della Primavera, ma poi è sfumato tutto. Mi piacerebbe tanto lavorare ancora per questa maglia. Per questa città».

AMORE ETERNO – L’ultima volta è tornato ad Avellino prima del derby, una settimana fa, per salutare gli amici e respirare l’aria di casa, e danzando intorno ai ricordi s’è ritrovato faccia a faccia con l’uomo che gli presentò l’Italia e la Serie A: Antonio Sibilia. Il presidente della grande saga. Loro due, l’antico attaccante e l’antico padre-padrone, erano e sono una splendida storia di trent’anni fa che, però, non può ignorare la favola dei giorni nostri: «Gli ho detto quanto sono felice per la squadra, ma il presidente ora fa finta di essere disinteressato. Io, però, non gli credo: lo so che è sempre innamorato pazzo»

Fonte: Corriere dello Sport.

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