Jorginho ha cervello fine e una caratteristica su tutte: dove Mandorlini lo ha messo, lì ha fatto bene. Lo scorso anno, in B, persino centrale di difesa (l’Hellas gioca a quattro). Centrale destro, perché quello è il piede che preferisce di più anche se nei suo dribbling usa spesso (e volentieri) anche il sinistro. Quest’anno poi ha giocato alla Briegel su Pirlo quando il Verona è stato ospite della Juventus e da regista puro contro la Roma all’Olimpico appena sette giorni dopo. Con tanto di rigore trasformato. Perché lui è uno gelido in campo e fuori. Insomma, un risolutore di guai, tecnici e tattici. Con il Napoli, domenica scorsa, ha giocato un po’ come pensa di usarlo Benitez: davanti alla difesa. Un mare di passaggi per tessere al meglio la tela di una manovra sempre pulita quando passava dai suoi piedi. Pandev lo ha messo in difficoltà, ma non ne ha sminuito il suo valore. Ha piedi buoni, ma non solo: perché macina anche tanti chilometri, una media di 12 chilometri a partita. Una specie di maratoneta. Si vede che ha carattere: tanti inserimenti e il piacere, oltre al dovere, di essere sempre nel vivo dell’azione. Peraltro il brasiliano, 22 anni compiuti a dicembre, che da un anno e mezzo ha il passaporto italiano mesi ha dimostrato di avere un’altra dote preziosa: la stabilità mentale. Mai distratto da voci e sirene, da un mercato che tutti i giorni lo ha tirato in ballo. Merito di un mental coach: si chiama Nicola Fittà. Gli allena la testa con degli esercizi come per esempio restare freddamente immobili a fissare un oggetto per cinque, dieci minuti. Lo segue da due anni. A Verona dicono di lui che sia più europeo che brasiliano: un modo per dire che è uno che si emoziona poco, non un grande fantasista e molto rigido ai compiti tattici che gli affida il suo allenatore. Uno solo ne ha avuto fino ad adesso: Andrea Mandorlini. La sua famiglia era originaria di Lusiana, in provincia di Vicenza e per questo ha ereditato il cognome Frello dal trisnonno paterno. A Imbituba, città del Brasile, parte a 15 anni per un provino. Non gli andò bene e rimase in giro per il Veneto senza sapere esattamente cosa fare. Dopo un anno e mezzo lo prese il Verona e conobbe Rafael. Il suo mito era Kakà: un modello. A centrocampo la si vede dappertutto: ragiona, corre e segna. Raramente sbaglia un passaggio.
Fonte: Il Mattino
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