I giochi non sono fatti. Di scudetto, Champions e retrocessione sapremo di più il Primo Maggio che dir festa dei lavoratori è una beffa, di ‘sti tempi. Un concertone e un capitolo del romanzo del campionato dovrebbero distrarci dal peggio. Non so la musica ma il calcio, diomio, s’allinea allo spread. Dire che Lazio, Udinese, Napoli e ora anche Inter – tutte insieme a 55 punti – giochino per un posto in Champions, viste le loro recentissime prestazioni è a dir poco grottesco. Manca che al plotoncino di aspiranti europee s’aggreghi anche la Roma è il quadro sará completo. Avvilente. Roma e Napoli hanno inscenato sabato sera una sagra degli errori (orrori compresi, vero Gago?), l’Inter si è detta – per bocca dell’incolpevole Stramaccioni – finalmente nella giusta forma solo perché ha spezzato le reni al giá retrocesso Cesena. E finalmente Udinese-Lazio, incontro al vertice, per constatare il quasi nulla esistente alle spalle di Juve e Milan, le duellanti-da-scudetto appena reduci dal poker (su invito di Miccoli, sponsor televisivo del gioco d’azzardo?) ottenuto a spese di Novara e Siena: cosa da far tremar le vene ai polsi. Onestà vuole che si apprezzino maggiormente le imprese del Bologna di Azzurrino Diamanti, del Parma dell’atomico Giovinco e dell’esplosiva Atalanta mortificata dai brogli di Doni.
Con tutto il rispetto dovuto a due squadre minate dalla fatica e dagli infortuni – e agli encomiabili sforzi tattici di Guidolin e Reja, due maestri a confronto – il cronista registra nei primi 45 minuti di gioco due sole eccellenze tecniche, anzi due encomiabili gesti in una sola azione: l’immensa parata di Handanovic sul fulminante colpo di testa di Rocchi. Era il 42’. Poi è entrato in scena Di Natale, un uomo una squadra. Un campione solitario che ha scelto la serenità della provincia per scrivere la sua storia di Gol Drake, il Nordest per costruire la sua piccola azienda pallonara mai in recessione: 151 gol, con quello di ieri sera, ma ancora non sappiamo se avrà una maglia azzurra agli Europei. Perché è un cavaliere solitario, perché è ormai uno degli ultimi interpreti dell’avventura calcistica svincolata da tatticismi inquietanti e da tecnici oracolanti. Totò è un inconscio poeta, un tecnico specializzato, uno stakanovista naturale. Totò non vincerà mai il Pallone d’Oro dei miliardari. Totò è il felice interprete di un film cult da Leone d’Oro. Ci pensino, a Venezia. O a Napoli…
PS. Il finale giocato a calci, sputi, insulti e pugni in faccia (ricordi, vecchio Sollier?) è naturalmente dedicato a Piermario Morosini…
Fonte: Il Roma.net
La Redazione
M.V.
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