C’è un grande, nel Napoli: si chiama Cavani. Non è una novità – direte. Ma non parlo del Matador, del fantastico bomber che anche ieri, commesso un errore, l’ha riparato segnando un gol rabbioso. È una novità il ruolo che ha deciso di assumere, proprio collegato alla rabbia che gli si è vista in volto – lui che vorrebb’essere angelico, sempre – nel momento del riscatto e subito dopo avere gettato al vento una vittoria importante. Ha parlato, Cavani, e con poche parole si è fatto in un attimo presidente, allenatore e giocatore. Ha accusato le cadute di tensione, le pause deleterie suggerite ora da presunzione, altre volte da una colpevole leggerezza; ha detto fra i denti che bisogna lavorare, lavorare, lavorare, mettercela tutta, come fa lui quando dopo l’ennesimo gol lo vedi sbrigare una pratica urgente nella sua area di rigore, e De Sanctis potrebbe testimoniare le occasioni in cui s’è trovato accanto quel difensore angelico felice cacciatore di incubi. Mentre altri – lo ha amaramente confessato Mazzarri, prima descamisado gioioso poi tornato incazzatissimo nell’abito d’ordinanza – continuano nella pratica suicida di favorire gol su tiri piazzati come se la ripetuta, ossessionante lezione del tecnico cadesse nel vuoto, in un compiaciuto disinteresse; eppure è chiaro quel che succede e non c’è bisogno di esser particolarmente eruditi: in quei momenti non lasciate libertà all’avversario, marcatelo forte, impeditegli quei balzi vincenti che fan diventare giaguari anche gli agnelli. Il calcio ha le sue regole, le sue pregiate cattiverie, e spesso gli azzurri sembrano generosi dispensatori di dolcezze. È come vedere Messi nelle ultime goleade travolgenti che in realtà sono spesso inconsapevoli regali: è un fenomeno, il ragazzo, ma guardate bene i suoi marcatori, gli lasciano spazio come se volessero farsi spettatori delle sue bravate, tanto prendere un gol da lui è normale, anzi, un onore; e ricordate, allora, la forza con cui il Divino Diego usciva dalle morse avversarie, come scampava all’attenzione di chi puntava alle sue caviglie. Il calcio – non insorgano le femministe – non è un gioco da signorine, la palla non è quella che si giocava alle terme di Caracalla: non c’è sport più duro e faticoso del calcio che coinvolge muscoli (cuore ompreso) e cervello. E dunque si è rivolto ai compagni, Cavani, come se fosse il vecchione della compagnia, e invece ha venticinque anni e un futuro da illustrare ulteriormente con vittorie importanti. Perché per ora non ha vinto nulla e anzi ha visto svanire il sogno europeo e fallire due occasioni d’agguantare lo scudetto, l’anno scorso e quest’anno. Dice bene De Laurentiis che i suoi (i miei) Tre Tenori non li molla, eppure deve sapere che a quel livello dopo gli applausi scroscianti del San Carlo si deve per forza conquistare la Scala. Sennò si cera un altro impresario. E tuttavia, ascoltato lo sferzante giudizio di Edinson il Terribile (versione insolita ma esaltante) si può star certi che la caccia al terzo posto da Champions continuerà e non sarà difficile riagguantare la Lazio fortunata del vecchio Reja nè lasciarsi alle spalle l’Udinese che sforna giovanotti come fosse un’accademia. Domenica c’è Juve-Napoli e per l’occasione si vedrà se è servita a qualcosa la lezione di Cavani che parte da un dato certo: quella di Mazzarri è la squadra migliore, per gioco (salvo cadute di passione) e per uomini. Ieri s’è avuta la conferma che anche i rincalzi sono eccellenti: Dzemaili ha arricchito di un gol bellissimo una prestazione più che positiva, Pandev ha dato la carica a un Napoli attendista servendo palle-gol a volontà, ha fatto la sua parte anche Fernandez. Sarebbe un delitto se un Napoli così riducesse le chanches europee al ruolo conquistato in Coppa Italia.
Fonte: Il Roma.net
La Redazione
M.V.
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