Bello il triplete, cari cugini spagnoli. Cugini di crisi e di spread. Maestri di calcio. Più bravi, più sicuri, più forti fisicamente. Adesso unici. Il sogno azzurro è rimasto sepolto sotto un 4-0 che è una randellata, anzi una serie. Che svuota in fretta le nostre piazze, non ci farà dormire per la delusione. Fors’anche per lo sconcerto, dopo essere passati in meno di un mese dal timore di essere solo dei comprimari alla quasi certezza dell’impresa. Vinciamo, si erano sbilanciati in troppi. No, l’Italia ha straperso questa finale di Kiev, senza mai dare davvero l’impressione di poter scendere dall’aereo con la coppa in mano per portarla quest’oggi al Quirinale dal presidente Napolitano, il primo tifoso.
Il risultato è molto severo, resterà nella storia come una macchia ingombrante, incancellabile. I campioni d’Europa e poi del mondo festeggiano con merito un quadriennio d’oro. Alla fine hanno fatto ala al passaggio degli azzurri che andavano a ricevere la medaglia d’argento da monsieur Uefa, Michel Platini. Bonucci in lacrime, Pirlo con gli occhi arrossati di dignità, Prandelli a consolare un Balotelli accasciato, sconforti di gioventù. Poi hanno sfilato sotto le bandiere spiegate gialle e rosse. Ovazioni e ole, uno stadio intero ai piedi per il loro terzo successo europeo.
Sul campo, prima, braccati, soffocati, storditi dal tiqui-taca spagnolo, gli azzurri hanno perso troppo presto le misure degli avversari. Travolti in velocità dagli speedy in maglia roja, autentici jet sull’erba bagnata per cinquanta minuti prima del match. Due gol in fotocopia, almeno in fase di partenza: a destra Fabregas oltre il malmesso Chiellini, per quel cross teso, sparatissimo, sulla testa piazzata di Silva; a sinistra Jordi Alba, una corsa di cinquanta metri sapendo da subito che Xavi, maestro di regia, glielo avrebbe recapitato sul filo quel pallone, oltre i centrali azzurri troppo lenti a capire. Un giochetto anche per un terzino far fuori Buffon a tu per tu, con la porta spalancata.
Sapevamo tutto, questo è il punto. Sapevamo che la Spagna non cambia mai di una virgola. Che colpisce così, con quei graffi improvvisi, mai superficiali, che ti affondano nella pelle, ti tolgono il riferimento, la sicurezza. Un conto per la nostra difesa è marcare Rooney o Gomez, un altro vedersi partire in continuazione di fianco quei furetti assatanati, dai e vai senza pausa, la marcia in più che ti toglie il fiato e ti allenta i riflessi. All’esordio eravamo più freschi. Prandelli allora aveva indovinato la mossa, la densità a centrocampo, scompigliando un tantino il baffo sornione di Del Bosque, con il miglior De Rossi in mezzo ai marcantoni. Stavolta il ct ha deciso di affidarsi ai quattro dietro, perdendo però i laterali, a tratti inutili di fronte al centralizzato gioco avversario. E la morsa spagnola ha finito per stringersi intorno a Pirlo, a De Rossi, a Montolivo, le nostre naturali fonti di gioco.
Il problema è che quello straordinario intruglio di Real e Barça funziona ormai a memoria, anche senza Ronaldo e Messi. Fabregas è stato capace di serpentine paragonabili a quelle della pulce argentina. Gli spagnoli semplicemente non ti fanno giocare. E dietro la difesa guidata da Casillas non perde mai del tutto la concentrazione, lascia il minimo, qualche tiro da fuori, e a quelli ci pensa il portiere capitano, perfino con qualche accenno di spocchia. Le occasioni migliori le ha avute Di Natale, subentrato in avvio di ripresa a Cassano. Di testa: alto. Di piede in girata subitanea, con Casillas ancora prodigioso. Sussulti di vitalità, di orgoglio, sul filo dei nervi.
La Spagna ha continuato a non buttar via un pallone, facendo paura a ogni ripartenza, facendo sussultare il cuore di ogni piazza d’Italia, ragazzi stretti gli uni agli altri, avvinghiati alla bandiera, il volto dipinto e la cresta tricolore sulla pelata alla SuperMario. Appesi alla speranza di un sussulto. Nonostante Caronte non desse tregua al Sud, neanche uno spiffero serale, uno spicciolo di ponentino che li rinvigorisse. Mentre a Milano cadeva una pioggia insolente. La festa sognata si è andata spegnendo prima di cominciare davvero, lontana l’eco di quei clacson, di quelle trombette, di quei balli per strada, intorno alle macchine bloccate nel traffico nella notte in cui facemmo lo sberleffo ai tedeschi. Lì a Kiev in dieci a lottare ma senza riuscire ad arginare, oltre lo spread pesante della sfortuna. Spagna padrona, certo. Con l’uomo in più, a controllare e poi a infierire. Nel calcio iberico non esiste l’eurodebolezza. E lo avevamo capito quando i nostri cugini, in crisi economica come noi, disoccupati più di noi, rigettarono con sdegno i soliti sospetti di accordo con la Croazia. Il biscotto? Per far fuori noi, figuriamoci.
Peccato, Italia. Perché un po’ di timore, almeno alla vigilia, eravamo riusciti a incuterlo anche a loro, agli invincibili. Inghilterra e Germania le avevamo rimandate a casa con il gioco, il nuovo credo che Prandelli, se resterà al proprio posto, continuerà a inculcare agli azzurri. Mentre alle furie qualche dubbio era venuto, quel calo di tensione che li aveva portati fino alla riffa del dischetto con i portoghesi. No, stavolta eravamo davvero noi i più stanchi, i più malmessi, i più deboli. E, una volta sotto, avevamo davanti una montagna rossa. Quella spuntata quattro anni fa ad un altro Europeo. Allora arrivammo ai rigori nei quarti: sconfitti, gli lasciammo campo libero per il titolo. Che avrebbero bissato, stavolta ai Mondiali, strabiliando il lotto delle contendenti.
Se abbiamo perso, dunque, è contro la nazionale più forte, contro il calcio dei padroni. Gli alibi reggono poco, ma in fondo quest’Italia è mancata solo all’ultima prova.
È andata oltre le aspettative, ha accarezzato il sogno e sfiorato il miracolo: quando il biondo Torres e Mata appena entrato hanno piazzato i colpi del suggello, i nostri erano cotti del tutto.
È la sconfitta, tra le finali perdute, più netta e più sonora: un 4-0 non si era mai visto. Con il Brasile nel ’70 in Messico, almeno Boninsegna ci salvò l’onore. E arrivarono perfino i pomodori al rientro, figli delle polemiche sulla staffetta Mazzola-Rivera. Stavolta dobbiamo solo inchinarci a chi gioca meglio.
Ci aiuterà a crescere. Anche se il ritorno è mesto: ci aspettano i processi per le scommesse, il mercato della crisi, senza sussulti possibili. Ma non ci saranno lanci di ortaggi, perché gli azzurri ci hanno sorpreso comunque. E solo una volta, l’ultima, in negativo.
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
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