VERONA – Tic, toc: il cronometro, la sua croce. E quando l’estasi rimane un desiderio da cullar nell’angolo più inaccessibile di Lorenzino, il tormento si lascia snocciolare rimettendo assieme i cocci di un semestre in bianco, in quelle diciannove partite d’insopportabile sofferenza, in 266 giorni a secco, in quei 1321 minuti trascorsi nel tunnel della «disperazione». «Papà, è fatta». E’ qui la festa, a casa Insigne, e il rito ch’è servito per scacciar via il malessere familiare d’un inverno raggelante stavolta ha un senso compiuto e una sua «sacralità», ha lacrime napulitane che reggono per dignità e però pure una felicità palpabile che si sprigionano da Frattamaggiore sino a Verona e simbolicamente consegnano ad un collettivo abbraccio familiare. Quanto tempo è passato, dall’ultimo gol? Un’eternità, un’esistenza divorata nell’attesa, ricominciata con il fischio d’inizio del campionato e intanto smarritasi nella «crisetta» manifestatasi in questo semestre scarso in cui è accaduto niente: non c’era più Insigne, almeno così raccontavano impietosamente i numeri che gli davano contro, che lo costringevano a mordersi le labbra, ad interrogarsi sulle ragioni (ammesso che ve ne fossero). Il destino s’era messo a divertirsi con lui e quei palloni che una volta finivano dentro, stavolta «morivano» fuori: fino a quando non è arrivata Verona-Napoli.
I LOVE NAPLES – Dov’eravamo rimasti, guagliò? L’Insigne che non t’aspetti è in quel cono d’ombra a rodersi il fegato, in quel tunnel impercorribile che da agosto sino al 12 gennaio lascia filtrare qualche filo di luce nelle abbaglianti notti di Champions: ma poi, in quel silenzio insopportabile, c’è un «ometto» solo che si carica sulle spalle i pregiudizi e qualche insofferenza popolare e procede a modo suo, a testa alta e a dribbling secco, aspettando che gli dei la smettano di perseguitarlo. Verona-Napoli è – a modo suo – la partita, la simbolica rivincita verso quello spicchio d’intolleranza che s’ode (eccome), la sintesi d’una rivalità calcisticamente acuta, l’occasione per scacciar via i fantasmi che aleggiano un po’ ovunque e che, quando a Insigne vengono i cinque minuti, sono sballottati nel Bentegodi scioccato che gliene conta di tutti i colori e le fa ascoltare a quelle orecchie agitate a mo’ di sfida mentre intanto bacia la «sua» maglietta.
I LOVE ITALY – Il piccolo fenomeno, quel genietto tutto finte e veroniche costruito da Zeman ad immagine e somiglianza del calcio spettacolo, è l’ennesima espressione del senso estetico made in Naples ma in quel tap in che schiaccia il Verona e strapazza l’incubo c’è non solo la prima rete in campionato ma pure il primo gol italiano d’una squadra capace di segnare in vari modi e sotto una varietà di bandiere nelle quali non c’era stato ancora spazio per il verdebiancorosso.
I LOVE CHAMPIONS – E così, soffrendo e tacendo, sbuffando e imprecando, in quel nebbione insopportabile c’erano finite pure le prodezze, luci spentesi nell’amarezza: altrimenti, la punizione al Borussia Dortmund, un capolavoro, sarebbe stata l’immagine esaltante d’un talento allo stato puro, capace di assumersi responsabilità autentiche e di non soffrire lo stress da prestazione; oppure, la rasoiata (sempre al Borussia, ma in casa sua), avrebbe avuto i connotati caratteriali di quell’uomo fatto tutto d’un pezzo, impermeabile e persino ignifugo.
I LOVE BRASIL – E quando Verona e Napoli stanno per cominciarla, l’Insigne giocoliere è in panchina a sistemare i pensieri, a riveder se stesso, le parabole perdute per un centimetro, le occasioni divorate senza un perché, le diciannove partite attraversate deambulando in quel vuoto pneumatico dal quale s’è ritrovato inghiottito. Tic, toc: cinque minuti ed è (tutta) un’altra vita, con l’eco delle offese da spegnere rifugiandosi (telefonicamente) tra le braccia di papà e soprattutto, stavolta, della mamma insultata. Perché i figli so piezz’ e gol…
Fonte: Corriere dello Sport
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