Alle 15.50 squilla il telefono. È mio marito. Mi dice con voce candida che è un po’ in pensiero per le condizioni climatiche. Mi fa: «E se ce ne perdessimo una? Ce ne stiamo a casa al calduccio e la guardiamo in tv». «Macché», è la mia risposta. Lui non demorde: «Allora facciamo che ti accompagno e poi vengo a riprenderti alla fine?». «E già – rispondo io – e lo rinneghi così il voto di stare insieme nella buona e nella cattiva sorte?». Così, sfidiamo il vento come se fossimo su una zattera in mezzo alla tempesta, stoici, tifosi e fieri come non mai. Non fa freddo, non fa freddo, ripetiamo come fosse un mantra apotropaico. Ci travestiamo da eschimesi per festeggiare il carnevale. Dai, che il Napoli ci scalderà. Ovviamente lo stadio è semi-vuoto: l’infrasettimanale, l’epidemia influenzale ed il gelo hanno dimezzato gli abbonati. Il vento fa correre le nubi alla velocità della luce, tipo quando ti vorticano i pensieri in testa in mezzo ad un alluvione di neuroni di speranza. Quella stessa speranza di riscaldarti ed esultare che ti accompagna per tutta l’impietosa e lentissima durata di una partita senza stimoli, priva di verve, durante la quale tu ti chiedi: «Ma a parte il folle amore per questo Napoli che non c’è, cosa mai ti ha fatta venire qua?».
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
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