Callejon, ogni volta inquadrato spegne i colori (quelli degli avversari), ha sempre un’ombra cupa che gli taglia il viso, un silenzio negli occhi, persino quando la mette in porta. Insegue il pallone come si inseguono le donne, è un flamenco di ricerca, il suo: prima lento, poi no, poi accelera e va, certo, in rete. Ricorda il Rodolfo Valentino messicano: Ramón Novarro, le sue occhiaie magari solo di tensione lasciano pensare a notti insonni, invece, no è una finta, l’ennesima prima di tirare. Perché si segna anche con la faccia, prima di calciare. È tutta una finzione, che gli serve per ingannare gli avversari. Per ogni partita un copione diverso, per ogni copione un gol decisivo. E persino il suo pallore è un romanzo: c’è un senso religioso da settimana santa, un purgatorio, i molti nomi della Vergine: sempre una attrice (qualcosa tipo Penelope Cruz) da conquistare a suon di gol (sei fino ad ora), i modi in cui sono stati dimenticati dopo ogni partina e una cattiveria possibile, che si intravede solo. La sua religiosità a Motril era tutta per Luis Figo e Ronaldo, la sua fede madrilena, la sua unica devozione tutta per il successo, per questo è venuto a Napoli come si andava a tentare fortuna dall’altra parte del mare. La squadra è il suo set esotico, la sua prova d’orchestra e gol decisivi. E se è vero che il calcio è cinema naturale, e Benitez un regista corale come solo Robert Altman, «Catania oggi» è solo un tentativo, uno dei molti esperimenti tra i diversi film in campo: da Armero smarrito nella sua area di rigore – titolo: «Un colombiano all’artico» – al corto neorealista con dramma familiare di Uvini, che cerca di giocare quasi a ridosso della linea laterale – titolo: «Saudade da panchina» – forse solo per paura d’amare il suo ruolo e la sua fascia, che lascia libera e pulita neanche fosse un altare. Mentre davanti Callejon sempre più calato nel ruolo di cacciatore solitario si dimentica di tutti meno che di Higuain, si allunga con il pallone, disinvolto come solo un divo, ha la certezza della maglia numero sette (quella di Cavani) e come lui porta i calzettoni alti sul ginocchio. E sarà per il costume o per il coraggio, fatto è che deciso infila Andujar che non ci arriva, un sinistro che porta il pallone all’angolo alla destra del portiere catanese. La sua è una parte da perdente, tanto che cinque minuti ricade di nuovo alla difesa e al tiro di Hamsik, che torna al gol. E, Callejon, nella ripresa continua a recitare sempre la stessa parte, quella del cacciatore figo che spara in porta tutti i palloni che gli passano, non è solo egoismo, e abitudine, ogni volta che gira le spalle a un compagno sembra dirgli: «Scusa ma oggi va così». Callejon lo sa che da qui si arriva a Hollywood. Per questo non smette di correre e dribblare, non esce dal ruolo che si è assegnato e che Benitez placido gli lascia recitare. E che le condizioni siano favorevoli o no, i cross buoni o sbilenchi, lui la spara in porta, piova o no, ciuffo o mascagna, lui segna. Con la faccia in bianco e nero da artista del muto.
Fonte: Il Mattino
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