L’esodo di massa comincerà all’alba: autostrada del sole, trentamila cuori per una capanna, e sarà una domenica bestiale, tutti incolonnati per inseguire il «sogno», per regalarsi una favola. Alla Tevere c’è ancora (qualche) posto, spicchi di stadio Olimpico per una città attraversata da un virus collettivo che non ha precedenti e che quindi – statisticamente – nel suo piccolo fa pure la storia: e mentre la febbre contagia i ritardatari che ancora stanno riuscendo a raschiare il fondo della scorta (a disposizione poche centinaia di tribune, le più costose, quelle da 130 euro), Napoli s’industria, si scalda, scende (metaforicamente) in campo a Castelvolturno, con una delegazione di tifosi che va a dar sostegno alla squadra al termine dell’allenamento, le parla, le racconta le sensazioni ed anche le attese collettive e le chiede il miracolo, arricchendo la bacheca con quel trofeo che ha un peso specifico ed un valore non solo romantico, che induce a muoversi con allegria ed anche con euforia, che spinge ad una raccomandazione magari anche superflua e però sentita: «Ragazzi, crediamo in voi e grazie per quello che avete fatto; ma adesso regalateci la Coppa Italia con una splendida prestazione» . Accade in un pomeriggio d’un giorno speciale, con il sold out ormai prossimo e la conferma non solo presumibile ma reale che l’Olimpico avrà i trentamila sostenitori annunciati dal giorno della conquista della finale: una enormità, una massa uniforme, monocromatica, un’onda azzurra.
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