Giovanni Trapattoni è un allenatore biologico, legge il calcio a partire dai corpi, dalle pulsioni di questo. È il più internazionale dei nostri allenatori, perché è un provinciale, come lo erano Giorgio Bocca e Federico Fellini. Solo chi arriva da lontano vede la città o il mondo, a lui è successo così. Ora che persino Lippi, a suon di denari, è andato in Cina, è facile, ma quando Trapattoni espatriò, e già non era un ragazzino, aveva dentro ancora tutta quella curiosità del provinciale, che lo ha portato a girare come nessun altro: Germania, Portogallo, Austria, Irlanda. A volte va bene a volte va male, la vita che è così, e il Trap lo sa, lui che è un personaggio di Jannacci, sa che l’erba dei campi da calcio non è uguale per niente, come gli spogliatoi e i tornei, e ogni volta bisogna ricominciare da capo, ma con le sue idee. È arcitaliano, superstizioso, mai cattivo, capace di soffrire e incazzarsi come pochi, onesto, sportivo, sa perdere e ridere di sé, capace di allontanarsi senza mai andare via. Ha un calcio pragmatico nella testa, è un anti-idealista, non ci sono orizzonti ma sacrifici e può vantarsi di molte cose: persino di aver marcato Pelé e di averlo annullato. In vecchiaia sta pagando la fortuna della gioventù, un gioco di mettere e levare. Ha ballato la quadriglia in posti diversi, sempre con lo stesso passo, e non ha mai abbassato lo sguardo. E poi c’è il linguaggio del Trap, da padre della lingua, la sua, non nel senso dell’italiano, ma del suo mondo, che gira e rigira torna: un mondo di praticità contadina. Non lo sa ma l’opera orale che ha scritto negli stadi di mezzo mondo, è un gran bel romanzo, quello di un provinciale che ha girato senza perdere l’identità, e non ha mai fatto concessioni al tempo, nemmeno quando era scaduto.
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
