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Il Napoli, una squadra che predica sul “deserto”

Una bella squadra, che vince anche quando non piace. E miete consensi per compattezza, gruppo assortito e ben guidato: un fiore che sboccia sulla sabbia del San Paolo
Una bella squadra, che vince anche quando non piace troppo. E poi miete consensi per la compattezza, il gruppo assortito e ben guidato ormai da quattro anni da uno tra i tecnici più apprezzati d’Europa. Il Napoli oggi ha tutto ciò che occorre per essere una formazione competitiva in Italia (leggi scudetto) e nel continente (può vincere l’Europa League) eppure incontra sul suo cammino gli ostacoli che meno ci si aspetterebbe. È il cosiddetto “fuoco amico” generato dall’ambiente di casa che sa essere tanto appassionato, quanto severo ai limiti della paranoia. Se il Napoli non vince, non ci si limita alla critica che si presume costruttiva, i seguaci traditi sanno essere velenosi al punto da esagerare in ogni aspetto e scagliare dardi arroventati all’indirizzo di tutto ciò che riguarda squadra e società.Ma è la rabbia tipica dell’innamorato che s’ingelosisce. Alle pendici del Vesuvio è sempre stato così. E sempre sarà, nella consapevolezza di chi viene qui e indossa quella maglia azzurra, che dovrà abituarsi a convivere con una forma acuta di possesso del genere morboso. Questo è il carattere del partenopeo con la sindrome da pallone, acuta e quotidiana. Ma Cannavaro e il resto della truppa Napoli, mai si sarebbe immaginato di imbattersi in un altro aspetto che attiene alle problematiche strutturali della città: il terreno di gioco all’interno delle mura amiche. Sì, il “terreno”, perché quello del San Paolo non è più un “manto erboso”. Lo era un tempo, fino a metà maggio. Rigoglioso e brillante, ciuffo per ciuffo, rasato alla perfezione e che rendeva il campo simile a un tavolo da biliardo. Il massimo per i calciatori tecnici presenti nell’organico di Mazzarri e che il tecnico esaltava con un sistema di gioco con ripartenze e scambi in velocità. «Cosa è successo al manto erboso?», l’interrogativo cercava almeno una risposta che fosse più convincente dell’idea che sul San Paolo fosse stato adagiato uno spelacchiato tappeto di velluto. Ma la realtà, quella cruda che si è impadronita dei calciatori, era anche peggio. Altro che strato di velluto, quella era sabbia. È stata una faticaccia battere la Fiorentina, quasi quanto una sfida di beach soccer che toglie il fiato e annulla l’aspetto tecnico. Non si poteva provare il dribbling e i difensori erano costretti a ramazzare il pallone, evitando il rischio di un controllo audace in area di rigore. No, in mezzo a tante brutture a cui questa splendida città è stata costretta da amministrazione ingorde e superficiali, il campo del San Paolo sembrava essere l’unica oasi, l’isola felice nella quale permettere ad undici giovanotti d’azzurro vestiti, di tenere alto l’orgoglio di Partenope con il gioco del calcio. La Ssc Napoli, nel senso di solitaria realtà funzionante in un contesto depresso, predicava nel deserto e permetteva ai napoletani di dire: «sì, ma almeno nel pallone siamo competitivi». Ora non è più così e il Napoli non predica nemmeno più nel deserto, ma sul deserto insidioso per gambe e ambizioni della squadra che riesce anche a vincere le regole della natura, rafforzando l’idea di essere il solo fiore all’occhiello di Napoli. Un fiore che miracolosamente germoglia anche nel deserto.
Fonte: Raffaele Auriemma per Il Corriere del Mezzogiorno
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