Sette meraviglie: e però ciò che resta è un 3-5 stratosferico, la sintesi di squadra (quasi) perfetta, la dimostrazione netta, nitida e limpida d’una superiorità schiacciante, compromessa con piccoli scarabocchi difensivi, però poi ripristinata attraverso le giocate mandate a memoria e il talento di fuoriclasse sparsi qua e là nel Napoli. Sette meraviglie: e però Torino è la più scintillante, la certificazione d’autenticità d’una organizzazione restaurata giusto in tempo per lanciarsi verso la Champions, la solennità dei movimenti d’una formazione che ormai recita non solo a soggetto, la fluidità di una manovra che a destra ha riscoperto la prepotenza di Maggio (sovrapposizione in occasione del rigore da vecchi tempi) e che a sinistra si giova d’una fusione chimica straripante tra Hamsik e Zuniga (l’assist per Dzemaili) ed Armero (il cross per Cavani). Sette meraviglie: ma non è finita, perché l’asticella è stata chiaramente alzata e ora la Mazzarri-band punta decisamente ad eguagliare (e magari a battere) se stessa, perché a quota nove c’è il Napoli del 2010-2011, quello che battè Garbutt e Bianchi, quello che arrivò terzo in classifica e dunque direttamente in Champions League.
DIFFERENZA – La prima meraviglia, a Palermo, all’alba del campionato, è figlia di una freschezza atletica ereditata dalla preparazione per Pechino: quel Napoli che fa stropicciare gli occhi alla “Favorita” va a velocità supersonica, non ha Pandev e però ha un Insigne che maschera l’emozione con il pudore delle proprie giocate, poi si scatena sull’asse Hamsik-Maggio, fa nascere i suoi tre gol sempre da destra, dove dilaga persino con Vargas. C’è una netta contrapposizione tra Palermo e Torino, ovviamente: perché intanto sono cambiati anche alcuni degli esecutori e pure il sistema, che nell’emozionante finale del sabato Santo sviluppa attraverso la difesa a quattro, con Zuniga-Armero catena mancina e con un Behrami che intanto ha maturato certezze e sa stare pure a fare da scudo alla retroguardia.
PATHOS – C’è un comune denominatore, in questi exploit: soffrire dà piacere al Napoli, che ama tormentarsi, sadicamente, perché delizia attraverso la propria consistenza tecnico-tattica e però gradisce farsi del male. Palermo è l’eccezione che conferma la regola: ma a Marassi, contro la Sampdoria, serve un rigore per imprimere la svolta (e comunque una serie di ritocchi in corsa per sistemarsi) e sempre al “Ferraris” – stavolta con il Genoa, bisogna addirittura scandagliare il fondale dell’anima, andare due volte in svantaggio, poi assaltare il fortino, farlo vacillare, infine demolirlo. Come a Parma, perché il Napoli è un po’ Penelope, crea e distrugge, va in vantaggio e si limita a controllare, senza chiudere la partita quando può: poi va in affanno, ma alla fine ha talento, ha una serie di accorgimenti che alla distanza premiano.
PARADOSSO – Cinque gol a Torino, in totale ventuno fuori: ma il secondo posto formato esportazione è costruito soprattutto con la difesa, capace di subire “appena” quindici reti, quattro in più della Juventus capolista, ma anche cinque in meno del Milan, nove in meno della Fiorentina, sette in meno della Lazio. Le più accanite delle inseguitrici, denunciando preoccupanti perdite: la strada è lunga, c’è la prova delle nove vittorie esterne che può servire.
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
Condividi:
- Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per condividere su Ok Notizie (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Pinterest (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)
- Altro