La faccia di Edinson Cavani è un lenzuolo che copre la città, giustifica ogni dolore, rende meno amare le separazioni, e promette un futuro di gioie chiuse nel recinto dei novanta minuti calcistici. Napoli è un album di facce, un corpo che ha bulimicamente bisogno di volti e di simboli, e ora, quella di Cavani sta alla città con una stupefacente normalità. Fino all’anno scorso, non avrei visto nei segni del suo viso scavato quelli di chi viene fuori da Napoli, e nessuno aveva sovrapposto il volto del calciatore uruguayano alle facce che nel tempo sono diventate icone, griffe o solo ricordi inestinguibili. Avrei detto che stava tra l’Aguirre furore di Dio di Herzog e Mantegna, invece l’altra sera al San Paolo, e anche in quella di Manchester, i suoi zigomi, il suo sorriso dicevano che c’era un percorso comune, scritto, da binario metropolitano, che passa Eduardo, Troisi, Ranieri, e poi in stazioni diverse: il Nino D’Angelo anni ottanta, o il D’Alessio dei matrimoni.
C’è una comunanza di tratti e pieghe del viso che rende Cavani familiare. E lo senti proprio quando ride, perché non perde la sofferenza che lo ha portato lì, che sia una area di rigore, il portone di un carcere o la fermata di un autobus. È una questione di calore, e tutti giù a voler stare sotto al lenzuolo, che prima erano le parole di Eduardo, il suo tempo fuori dal tempo, poi volevano stare nella grazia dei dubbi di Massimo Troisi, e dopo cantare che: Sì, bruci la città, con Ranieri, ogni volta che Cavani segna. In realtà nel passaggio di facce, davvero come un treno che cambiando stazione, cambia quartiere e tempo, ci sono le stratificazioni della città: quella scavata di Eduardo è la Napoli malapartiana della guerra e della fame, che deve reinventarsi, capire come e dove andare. Quella di Massimo Troisi è la faccia pallida della malattia, della Napoli livida degli anni ottanta, sbranata da politica e camorra, dove non restava che piangere, e prenderli in giro. Mentre Nino D’angelo diventava un «bravo ragazzo» allacciando la città all’Italia, per la prima volta. Negli anni novanta, c’era la giovane faccia di D’Alessio, il suo arrampicarsi sui muri di periferia dell’amore, e dietro il vuoto, perché la città che pareva rinascere stava perdendo la sua unicità: nel passaggio da dialetto a napolitanitaliano di Gigi, c’era proprio questo smarrimento, e non a caso la canzone manifesto è «Aspettando».
La faccia smunta di Cavani, è altro, è la disciplina, la regola, la voglia di organizzarsi che De Laurentiis – con un linguaggio da sceneggiata – sta provando a dare, e che dalla squadra si spera arrivi a contagiare la città. È come sull’isola di Pasqua, Napoli ha bisogno di esibire i faccioni, di farsi riconoscere, ha una disperata necessità di apparire e raccontarsi, un frou frou che vada oltre la normalità, sempre. E che ci sia una faccia a riassumere, una faccia lenzuolo, dietro la quale fabbricare altre facce, maschere, tutte col vizio di forma.
La Redazione
A.S.
Fonte: Il Mattino
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