Luci al san Paolo: e intorno, in quel microcosmo che gli appartiene, gli echi d’una felicità avvertita nella pelle. 2 settembre 2012, l’estasi ha una sua scadenza, l’ha scelto il destino, che stavolta non è né cinico né tantomeno baro ma un alleato straordinario, è in quella notte della stella ha concentrato scariche d’emozioni nelle quali è indispensabile resistere. E però c’è il san Paolo, la culla inseguita dall’infanzia, il sogno tracciato dalle parabole; e poi, ma chi l’avrebbe detto?, s’è già sparsa la voce e quella maglia ch’è il desiderio inconfessabile d’ogni essere umano travestito da calciatore insegue. «Non ci credo». La verità è in quel fascio d’euforia che s’espande nel “suo” stadio, nell’ohhh d’ammirazione che lo sostiene all’ingresso in campo: e l’Insigne ventunenne che ora va a spasso con la gloria, sa bene ch’è appena cominciata. «E’ bellissimo, però». E’ un sospiro lieve che s’impadronisce per un istante della scena, è un battito accelerato che però dura un nano secondo, è un Insigne privato che si defila di slancio, come nelle sue veroniche, e provvede a lanciare il Lorenzino il magnifico pubblico alla sua gente, perché ora quello serve: non c’è Pandev, e già non c’era Lavezzi, e dunque non è il momento di prodursi in autocelebrazioni, ammesso mai che avesse intenzione di farlo.
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