NAPOLI – La rabbia e anche l’orgoglio: perché in quell’istante (accecante) è scivolata via l’umanissima ribellione al destino (ed alla sostituzione), la voglia matta di esserci, di negarsi nulla, neanche un fotogramma da pipita. Il «falso nueve» stavolta è quello autentico, ha il fuoco che cova dentro, ha un vulcano che esplode ed ha una bottiglia a portata di destro: pumm, lancio secco, per riversare a bordo campo quello che avrebbe voluto spruzzare nei «suoi sedici metri», le ultime gocce di Higuain, dieci minuti ancora per provarci, per crederci, per sentirsi (ancora) utile.
L’ASTINENZA – Non c’entra, può essere quella la scintilla: anche se il famelico bomber che si nasconde in quell’ uomo (quasi) bionico, ventuno reti e dieci assist, ne avrebbe sempre voglia di segnare. Però era successo a Torino, appena sei giorni prima: palla di Hamsik, spallata con Glik e polemiche azzerate a modo suo, l’esultanza ed un’alzata di spalle. Non ti curar di loro ma gongola e passa: e quando s’è alzata la lavagnetta luminosa che l’implosione non è stata possibile contenerla, perché in quel preciso momento stava per chiudersi la sua domenica, proprio mentre serviva la sua presenza.
I TRAGUARDI – Quelli sì: la Champions, l’habitat naturale d’un attaccante spaziale, che nella Real casa ha comunque vissuto in una dimensione da extraterrestre, l’aveva lasciato in lacrime sull’erba del san Paolo, al termine d’un girone con dodici punti e una sontuosità degna di miglior sorte. Poi l’Europa League: ma certo che gli sarebbe piaciuto procedere e sognare in grande, credere che sì, forse c’era la speranza di poterla alzare al cielo e prendersi la rivincita con il destino. E sul più bello, dopo aver strapazzato il Porto, proprio a lui era sfuggito il match point: un errore all’«Estadio do Dragao» e uno al san Paolo, lui ch’è un infallibile cecchino, il killer per eccellenza; gli era venuto il «piedino», diamine, e faticava a digerire pure quella delusione.
THE CHAMPIONS – Restava quella, sino a ieri sera: meglio tentare di prendersela direttamente, provando a far sentire alla Roma il fiato di Higuain sul collo, lasciandole avvertire la presenza fisica d’una squadra mai doma, pure in dieci uomini, e capace di resistere alla Fiorentina, di contenerla con sufficienza o almeno con dignità. Però all’ottantesimo, in quel contenitore d’emozioni forti, s’è accorto che non c’era spazio per difendere le proprie aspirazioni, per mettersi a disposizione della compagnia, come accaduto ripetutamente, andando a pressare su chiunque, poi standosene abbandonato a se stesso: un uomo solo al comando dell’operazione avvicinamento.
LA RIBELLIONE – Fuori: e dieci minuti, per chi ha il senso del dovere e magari ragiona in maniera diversa da un allenatore – che deve valutare gli sforzi, la pesantezza delle gambe e pure quell’accenno di nervosismo già punito con un giallo da Tagliavento – sembrano un’eternità; o magari semplicemente una sofferenza; o anche – molto più banalmente – la somma di una serie di riflessioni; e infine l’insofferenza (semplicissima) per quel ch’è nell’aria: perché la Fiorentina attacca e magari a campo largo, chissà, si può cogliere uno sprazzo di Higuain.
LA SORTE – E poi la maledizione: sette, otto, nove palle gol con il Porto lanciate al vento; e un primo tempo con la Fiorentina nella quale ci si è messo Neto e ci si sono messi gli astri. Serve acqua per spegnersi un po’ e però pare veleno…
Fonte: Corriere dello Sport
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