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Higuain e l’amore del San Paolo. Il Pipita osannato nel tempio di Diego

E’ la «manita» del cuore: e non c’è verso (né voglia) di fermarsi, perché stavolta la commozione è autentica. E’ la «manita» del bomber: tre reti al Verona, uno – maledizione, solo uno – all’Atalanta e poi la girata al volo, come solo i «fenomeni» sanno fare, andando a scaraventare, dopo appena centotrenta secondi, la rabbia d’una quattro giorni da incubo. E’ la «manita» che va e insegue gli sguardi perduti d’uno stadio ch’è per lui, e non sa più come farglielo capire: glielo ha urlato domenica scorsa, dopo la doppietta di Hamsik, glielo ha strillato in faccia nei momenti topici e in quelli anonimi con la Roma, affinché capisse che non c’erano strascichi, né un filo d’amarezza, per quel rigore sparacchiato tra i guantoni di Sportiello. E’ la vita (d’un bomber), «pipita» e il san Paolo non ha voce che per lui: «Higuainnnnnnn, Higuainnnnnnn». E’ un urlo feroce, che squarcia Fuorogrotta, è il gesto d’amore d’una folla che va in cerca d’eroi e, avendolo trovato, se lo coccola, se lo vizia, lo strattona affettivamente per fargli dimenticare la Champions perduta (da tutti) e quel rigore, quei due rigori, che magari avrebbero riscritto la storia (parziale) del campionato.

LA STANDING OVATION. Quanto duri quella sfilata, è chiarissimo, quattro minuti e passa, però vorrebbe segnare l’eternità, perché Higuain deambula da una curva all’altra, poi si mette al centrocampo, saluta i «distinti» e le tribune, agita la sua «manina», mica per ricordarne che ne ha fatti cinque – solo cinque, caspita – in una settimana, lui ch’era fermo da otto domeniche, e che vorrebbe dire ad ognuno di loro ciò che va a sussurrare alla panchina e ai dirigenti ed ai compagni che lo sommergono: «Sono felice».

E INVECE. Le parole, stavolta, restano a galleggiar nel vento del san Paolo, soffocate da un anacronistico silenzio stampa che lascia implodere la felicità del «pipita» e d’una squadra che ora se lo gode appieno quel fenomeno da quaranta milioni di euro, capace di uscire dal tunnel della malinconia di due mesi e di lasciarsi alle spalle l’inferno del san Mamés, la delusione della finale del Mondiale, gli undici metri fatali con il Chievo e con l’Atalanta andando a raschiare nell’incipit d’una gara maestosa pure nell’umiltà di rincorrerli tutti, di assecondare Benitez che lo reclama nelle coperture delle diagonali.

TANGOL. Si scrive Higuain ma si rilegge il calcio nella sua modernità, nella capacità di un attaccante di essere «falso nueve» o anche centravanti autentico, nella leggiadria in certi allunghi e, vabbé ci sta, anche in qualche insofferenza: perché ad un bomber, toglietegli un gol, al novantatreesimo, e dal dischetto, ed è come avergli rubato l’aria. Il passo di «tangol», minuto due e dieci secondi, in realtà è la sublimazione d’un gesto tecnico, poi accompagnato dall’assist – il terzo – per mandare in porta Callejon, per dimostrare che Higuain è tante cose assieme, mica solo un bulimico, ingordo cannoniere che ha smesso di restare cupo, triste, ripensando a Bergamo e che ora può entusiasmarsi nel regno di Diego, del quale sta per diventare l’erede. «Higuainnnnnnn». E’ un canto imperioso, l’incoronazione: una possente cantilena che trascina nell’olimpo degli dei di Napoli.

Fonte: Corriere dello Sport

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