– C’era una volta Hamsik: sei anni, mica un battito di ciglio, la solennità dei gesti, l’autorevolezza nell’idea, la solennità d’un passo di danza e la serietà d’un uomo cresciuto troppo in fretta, assai prima di ciò che sussurrava quella carta d’identità. Ma poi, e lo dicono i saggi, viene fuori il pathos del settimo anno, ed è una somma di fattori che scatenano la differenza, pardon la diffidenza, persino in sè, in quel granitico «mostricciattolo» di bravura che però – tre settimane fa – s’è saputo persino mettere pubblicamente in discussione: «Non so cosa mi succeda, ma non sono io: però ce la farò».
– I conti, eh sì, non tornano: perché Hamsik è altro, è la favola del principe azzurro che va sistematicamente in doppia cifra, è la sintesi d’un progetto tecnico nel quale c’è l’universalità del fuoriclasse, ora incursore e ora semplicemente mezz’ala, ora seconda punta e ora trequartista puro, ora esterno e poi persino mediano; e, per chiudere, il capitano. «Ma dalla prestazione usciamo delusi, perché nel primo tempo siamo stati capaci di creare ma senza realizzare. E poi nella ripresa siamo stati puniti».
– Dov’eravamo rimasti, maledizione? Napoli-Catania, è il 2 novembre del 2013 e pare se ne sia una esistenza intera, perché questo Hamsik è la controfigura dell’altro; forse la pallida interpretazione del «cavallo pazzo» che stende il Milan da solo nel coast to coast del 2007; o persino la copia mal riuscita di chi ha saputo sedurre più e più volte la «Vecchia Signora»; comunque non il galante rubacuori del San Paolo, settantasette gol (ma solo sei quest’anno) ed uno stuolo d’adoranti fans che gli perdoneranno ogni cosa, pure l’astinenza a oltranza, racchiusa in un clic sul proprio sito per confessarsi senza veli: «Perché l’amarezza c’è: potevamo sfruttare meglio ciò che eravamo stati in grado di produrre. Le occasioni per far gol le avevamo avute». E ventidue partite (di campionato) dopo, rimane un banco di nebbia: Marekiaro è là in fondo, oltre quell’incubo.
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