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Hamsik, la bandiera ammainata pronta a sventolare: ”Voglio la finale”

 

Perché bel tempo e cattivo tempo non durano tutto il tempo: e centotrentotto giorni rappresentano il passato da scacciare via, il vuoto da riempiere a creata alta, fendendo l’aria e quel san Paolo che l’acclama: “Vogliamo la finale”. Volere è potere e in quell’uomo solo che va a comandar se stesso per uscire dalla tormenta c’è la sana consapevolezza che si può fare, che si deve fare: ora o mai più, perché gli appelli non sono di questo calcio, di quest’ Europa League che a modo suo è estasi, è il pianeta da attraversare guardando lontano e gustandosi il miglior Marekiaro possibile: «La vittoria di Torino, alla fine, è servita per saldare il terzo posto. E adesso ci concentriamo sul Porto».

IL DIGIUNO – La domanda che sorge sistematicamente spontanea è il tormentone d’un quadrimestre insopportabile, un tunnel scurissimo che ha inghiottito il talento e la spavalderia d’un leader travolto da se stesso: «Non sono io ma ne verrò fuori». Aaa cercasi Hamsik, però senza disperarsi: perché il san Paolo è un microcosmo affettuoso, la camera di compensazione in cui custodire il proprio credito di stima e di simpatia coltivato da una città innamorata persa del capitano. Centotrentotto giorni, l’eternità: eravamo rimasti a Catania-Napoli, ormai un girone fa, e non era ancora accaduto nulla, non l’accidente d’una serata inutile e anzi dannosa, sette minuti con il Parma per starsene due mesi (circa) ai margini, per temere una frattura poi scongiurata dal lavoro dell’equipe medica, per lasciarsi comunque divorare dall’ansia con la quale Hamsik non s’era mai misurato: «Il primo incidente serio della mia carriera».

 

LA BANDIERA – Hamsik è il Napoli, il simbolo d’una rinascita fondata sul progetto, l’identità riconosciuta ad un modo di essere, la filosofia imperante dal 2007 (e anche prima): Hamsik è la bandiera e anche la “diversità”, la scelta di vita manifestata pubblicamente in sette anni densi e svuotati da qualsiasi tentazione: «Io qui sto bene e qui sta bene la mia famiglia. Siamo felici». Centotrentotto giorni però senz’avvertirli, manco un refolo di diffidenza, né un sospiro d’insofferenza: perché Hamsik è “altro”, è il figlioletto “adottato” da De Laurentiis («una persona perbene, un ragazzo educato, un modello») ma anche il totem inattaccabile, l’esemplare d’una fedeltà a cui si concede (si può, si deve) l’umanissima difficoltà. «Ma ne uscirò».

 

LA RINASCITA – Poi arriva Torino e s’intravede la luce, un fiammiferino che s’accende nelle notte, un bagliore – magari occasionale – che diviene un segnale da cogliere: ottantanovesimo minuto, lo sguardo fiero di chi sa dove lanciare non solo il pallone ma pure l’idea per Higuain. Al resto pensa Glik ed un po’ anche Doveri, prima che el pipita esalti quell’assist, lo trasformi in balsamo per Marekiaro, l’amico da sostenere con i fatti e anche con le chiacchiere: «Lui è un grande calciatore e deve semplicemente star tranquillo. Ha la fiducia di chiunque, dunque».

 

VEDE DOPPIO – Hamsik è uno e anche trino, è il centrocampista che rifinisce, il mediano che in fase di scivolamento va a ridimensionare il regista offensivo e però è anche il bomber che nei suoi sei anni da napoletano è stato capace d’andare sempre (sempre) in doppi cifra e che nel primo triennio da principe azzurro, quando pure c’erano Lavezzi e Zalayeta, fu capace d’essere capocannoniere. Hamsik è in quella dimensione stellare raccontata dai numeri, che a modo loro non mentono mai: settantasette reti tra campionato, coppa Italia, Champions ed Europa League e un messaggio spedito attraverso il proprio sito: «Vogliamo la finale». Perché bel tempo e cattivo tempo, non durano mica tutto il tempo.
Fonte: Corriere dello sport
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