Ma la ruggine dov’è finita? Tredici mesi girando nel vuoto, in quell’angolo ch’è il nulla e che riempie le partite di chi non gioca: un anno e un mese, a soffrire, a lottare, a impegnarsi come se la domenica fosse pure sua e non solo di compagni divenuti anche amici, anzi fratellini, anzi nipotini da coccolare, da assistere e quasi da cullare. Gennaio 2011, Napoli-Fiorentina, si perde nella notte dei ricordi, assai sfocati. Ma poi, domenica 12 febbraio 2012, un «fratino», quelle canotte giallo fosforescente, ridà colore: «E’ stata un’emozione, mi sono sentito un ragazzino». Trentacinque, ma mica si son visti: quel giovanotto lì, Gianluca Grava, sa bene come si fa per prendere a calcio la paura; ci si mette a giocare con se stesso, dribblando Paloschi o Pellissier, rischiando, sapendo ch’è andata sempre così nella sua carriera, Casertana, Turris, Ternana, Catanzaro. Dalla polvere della provincia si sorge menando fendenti, entrando in tackle, mostrando gli spigoli della propria faccia: «Non dite che questa sera sia stata determinata dal mio rientro, non c’entra assolutamente nulla Questa è una squadra che ha fame. I tre punti erano troppo importanti per noi».
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