Quando Gianluca Grava appare sulla linea del campo, la partita contro il Villareal è praticamente finita, questa sostituzione, al novantesimo, è il riassunto di sette anni di polvere, rabbia e salita. Il calciatore casertano è l’unico sopravvissuto del fu Napoli Soccer, ma lui, nei quattro minuti supplementari, raccoglie Consonni, Trotta, Montesanto, Montervino, Romito, Varricchio, Ignoffo, Giubilato e tutti gli altri che oggi sono fantasmi di un mondo che non c’è più, come i cafoni dei paesi raccontati da Carlo Levi. Grava, correndo verso l’area di rigore, ha attraversato in un solo fiato i campi di calcio della Sicilia, della Puglia, della Calabria; le zolle dure, gli spalti gelidi, l’alito rabbioso degli spettatori; e poi, gli spogliatoi da calcio amatoriale, le dirigenze sgrammaticate; soprattutto, il fango di campi che avevano la faccia di Scarface.
Grava ha avuto il tempo di calciare una sola volta il pallone, spazzandolo via dall’area di rigore, da numero due antico, senza l’estetica dannosa di molti difensori moderni. Sul suo piede, però, devono aver risuonato prima la sua infanzia a San Prisco e poi le lacrime, dopo la sconfitta nello spareggio per salire in serie B contro l’Avellino. Quello fu il tempo più duro, come gli inverni in montagna, quando Grava e gli altri furono condannati alla ripetizione dell’inferno, rimanendo nel pantano dantesco della serie C. Il tempo trascorso dalla sua entrata alla fine della partita ha avuto la certezza religiosa della redenzione, per quanto brevissima e apparentemente insignificante. La gloria andrà a Hamsik e Inler, a Cavani e Lavezzi, a Grava spetteranno invece i suoi detriti, perché lui rappresenta, con quella faccia da muratore preoccupato, gli ultimi. Ma che sanno sedere alla tavola dei beati, masticando ancora la polvere.
Se Grava non fosse entrato, avremmo esultato con le braccia a mezz’asta, per dispiacere di un uomo che del suo corpo ha fatto radice del tempo. La sua caparbietà e ostinazione, la sua capacità di resistere alle intemperie dei malumori di uomini e coppe somigliano a quei cancelli di vecchie dimore; restano lì, per una sola ragione: sono cancelli. La sua corsa, alla fine della gara, verso i tifosi è dichiarazione di esistenza: io sono qui, con voi, in terra straniera, e mi porto anche i fantasmi dei primi stranieri che misero piede nella terra di Castelvolturno come Robson Toledo e Olivier Renard. Nomi andati perduti, passati prima di tanti altri. Per certi versi, Gianluca Grava rappresenta l’epitaffio di decine di calciatori che hanno indossato per breve, inconsistente tempo la maglia del Napoli con il loro carico di mediocrità e di sudore. Ecco, questi sono i quattro minuti in Champions League di Grava, iniziati tanti anni fa, quando il Napoli rantolava ingiustamente dentro il suo castigo.
La Redazione
P.S.
Fonte: Il Mattino
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