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Gabbiadini, la Juve e la Samp: un rimpianto lungo dieci anni?

“Che ci faccio qui?”. È l’interrogativo alla Bruce Chatwin che attraversa sempre più di frequente la mente di Manolo Gabbiadini. L’occasione più recente è stata domenica scorsa, durante il collegamento con Sky Calcio Show nel post-partita di Napoli-Udinese. In studio c’era il solito, penoso circo tenuto alla frusta dalla domatrice di chihuahua. E collegato dal San Paolo c’era lui, che dal modo in cui teneva pressato l’auricolare pareva volesse tapparsi l’orecchio per non udire quel surplus di scemenze. Gli chiedevano ogni amenità, compresi alcuni aneddoti sulla sorella maggiore Melania. Che gioca a calcio come Manolo, è titolare della maglia azzurra ed è stata definita la Messi del calcio femminile. E lui stava lì a sorbirsi tutte quelle fesserie, con l’aria di chi sa che gli tocca e per fortuna di lì a poco arriverà il momento in cui potrà andarsene via.

Rispondeva con monosillabi o al massimo trisillabi, cacciando fuori una voce blesa da lunghi silenzi così tanto simile a quella di Andrea Pirlo. Un altro che, non a caso, preferisce parlare sul campo, lasciando che a cantare sia il pallone. Si faceva pure scivolare addosso l’invito a mostrare un sorriso, impedendo di farsi trattare come se fosse un altro chihuahua, ma in collegamento esterno. Tutto senza fare la minima smorfia. E senza mai dismettere l’espressione di chi si chiede cosa ci stesse a fare lì.

Una domanda che mi pongo anch’io: che ci fa qui Manolo Gabbiadini? Cosa porta questo marziano nell’Italia calcistica degli anni Dieci? Non c’entra niente, è un’anomalia che pare fatta apposta per ricordarci quanto si sia avvitata la crisi del pallone italiano. Un movimento che ormai produce pochissimi talenti, e che quando li produce finisce per mortificarli o lasciarli scappare all’estero. E intanto nel nostro campionato pascolano placidamente stranieri di terza scelta o tromboni sfiatati, venuti a strappare un dorato pre-pensionamento.

Lui invece di anni ne ha compiuti 23 alla fine dello scorso novembre. Ne ha almeno altri dieci di carriera davanti a sé, e tante altre cose alle spalle. A cominciare dal fatto d’essere nato e cresciuto in un pezzo d’Italia dove il pallone te lo porti nel DNA: la provincia bergamasca. Manolo è di Calcinate, la stessa cittadina che ha dato i natali a Fabio Bonetti, alias Volo. Giusto per non far dimenticare mai che in uno stesso luogo è possibile trovare il letame e i fior. Soprattutto, egli cresce nel vivaio dell’Atalanta. Garanzia di qualità come pochi altri in Italia. Da lì Manolo parte per fare la gavetta. Passando dapprima per le giovanili di Palazzolo e Montichiari, poi in B col Cittadella. È la stagione 2010-11, quella in cui incontra la sola fidanzata di cui si trovi traccia sul web. Non una letterina, ma una studentessa universitaria sua coetanea.

Manolo è così. Sale lentamente di grado, si mimetizza. Cresce poco a poco. A passi talmente piccoli da non farti accorgere di quanto siano veloci. Non ha ancora compiuto 20 anni quando fa la sua prima stagione in A con l’Atalanta, a 21 anni gioca 30 partite con la maglia del Bologna, e poi va alla Sampdoria. Di mestiere fa l’attaccante, ma non prende a segnare tanto da subito. Sei gol a Bologna, uno nella stagione precedente con l’Atalanta. Comincia ad aumentare il ritmo con la Sampdoria, ma senza esagerare. La frequenza con cui va a segno continua a non essere elevata. Ci si accorge che Gabbiadini ha segnato un altro gol. Poi più in là un altro. Qualche settimana dopo un altro ancora. E gol dopo gol ci si accorge che ‘sto Manolo Gabbiadini un po’ di gol li fa, e pure pesanti. E non è soltanto questo. Il ragazzo cresce, e arricchisce il bagaglio tecnico incrementando le doti tattiche. Si scopre che dalla metà campo in su sa fare tutto. Metterla dentro, e questo gli tocca per mestiere. Ma non solo. Ricama splendidi assist e calcia punizioni con una perizia che ricorda proprio quella di Pirlo.

Attaccante, sì, ma con piedi da rifinitore. E non è ancora tutto. Se l’allenatore glielo chiede, Manolo è capace di sacrificarsi come un cagnaccio da linea mediana. Non sarebbe la sua vocazione, ma se la squadra ha bisogo di questo lui lo fa. Perché dentro una squadra ci si cala subito, e sa che deve essere lui a inserirsi nei meccanismi e non i meccanismi a dover essere ritagliati intorno a lui.

Ecco, adesso tirate le somme di tutte le caratteristiche menzionate. E capirete come mai ogni allenatore farebbe carte false per avere un giocatore così. Versatile, capace di mescolare quantità e qualità, e con un senso quasi calvinista dell’impegno personale in favore della causa. Soprattutto, portatore di quella sana modestia che significa assenza di fronzoli, non certo remissività. Uno di quei calciatori che “fanno” il gruppo. E guardando al suo modo di stare in campo e fuori tornano alla mente le parole che, ai tempi in cui allenava l’Udinese, Alberto Zaccheroni pronunciò a proposito di un calciatore nel quale aveva massima fiducia: Giuliano Giannichedda. Di lui Zaccheroni disse: “Non credo di esagerare se dico di non averlo mai sentito parlare mentre sta lavorando”.

Non so se in allenamento Manolo Gabbiadini sia taciturno come Giuliano Giannichedda. Di sicuro c’è che quando pronuncia le scarne parole non si cura di tenerle dentro i canoni della diplomazia. Nei mesi scorsi, quando già le sue quotazioni salivano e si parlava di un possibile trasferimento alla Juventus o alla Roma, affermò candidamente che avrebbe preferito andare a giocare nell Premier League o nella Liga Spagnola. E magari aveva anche ragione. Sapeva che forse altrove lo apprezzerebbero di più. Ma intanti pedalava con la maglia della Samp, e con Okaka e Eder dava vita a un tridente talmente pieno di qualità e spirito di sacrificio da mandare in tilt qualsiasi difesa. Con un trio d’attaccanti così, tutti capaci di sbattersi come mediani quando occorre, puoi andare a fare la guerra a chiunque. Sinisa Mihajlovic lo sapeva. E ne era felice, lui come la Samp.
Ma poi si sa com’è: quale libidine maggiore che smontare una cosa funzionante? E magari far vedere che una volta smontata la si rimette in funzione meglio di com’era?

Così succede alla Samp con l’inizio dell’anno nuovo. Il vecchio equilibrio viene decostruito, il nuovo forse verrà. Di sicuro c’è che Manolo Gabbiadini viene spedito altrove. Il club blucerchiato preferisce puntare sui nomi altisonanti, e soprattutto stranieri. Manolo è italiano, e ha soltanto 23 anni. La vede così pure la Juventus, che del giocatore ha la comproprietà. Ma preferisce lasciarlo andare. Tanto c’è Tevez, che di anni ne ha 31 e va in scadenza di contratto nel 2016. E poi c’è Llorente, che quest’anno non ne imbrocca più tante ma prima o poi riprenderà la strada.

E soprattutto c’è Morata, che è targato Doyen Sport Investments e dunque guai a toccarlo. Per questo Manolo finisce al Napoli. Cioè la squadra che fino alla pausa di fine anno contendeva alla Samp il terzo posto. Uno dei club che (al pari di Fiorentina, Inter e Udinese) in questa stagione hanno schierato in campo meno italiani. Manolo arriva, e giusto il tempo d’ambientarsi, poi firma due vittorie che consentono al Napoli di piazzare l’allungo forse decisivo nella corsa al terzo posto e di guardare con rinnovate ambizioni al secondo.

Sul campo del Chievo segna un gol e mezzo (autogol provocato) nella vittoria per 2-1, e poi va ancora in gol contro l’Udinese domenica scorsa. Già perfettamente a suo agio in una squadra piena di campioni che mira ai traguardi alti. Il miglior colpo di mercato, per questa sessione invernale e per le prossime quattro o cinque che verranno. Il Napoli se lo gode, Juventus e Sampdoria si augurino di non rimpiangerlo fino a che non smetterà di giocare. Sapendo che ha solo 23 anni e dunque i rimpianti potrebbero essere lunghi assai.

fonte: Calciomercato.com

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