“Il nuovo San Paolo sarà di 41.000 posti, come lo Juventus Stadium […] Sono convinto che la capienza negli impianti nei prossimi 5 anni si ridurrà molto. Anche a causa di quello che è lo stadio virtuale, così come accade anche nel cinema. Io penso che 41.000 siano addirittura eccessivi.” Queste le parole di Aurelio De Laurentiis in merito allo stadio San Paolo. Le dichiarazioni, se da un lato sono supportate da quelli che sono i dati dell’affluenza all’impianto di Fuorigrotta (30.721 la media spettatori dell’ultima stagione), dall’altro fanno storcere un po’ il naso ai nostalgici degli anni ’80, dove l’ex Stadio del Sole, pensato, disegnato e realizzato dall’architetto Carlo Cocchia e dall’ingegnere Luigi Corradi alla fine degli anni ’50, ha visto superare anche le 90.000 presenze. I motivi di questo disinnamoramento possono essere molteplici. Dai dubbi sul progetto tecnico alla fatiscenza dell’impianto fino al prodotto offerto dalle televisioni, quello che De Laurentiis definisce “lo stadio virtuale”. Uno stato di fatto tutto italiano dettato dalla pessima condizione della maggior parte degli stadi. Assistere ad un match dalla poltrona di casa è certamente più confortevole, oltre ad avere il vantaggio di una visione in alta definizione, cosa che la struttura obsoleta dei nostri impianti, la presenza delle piste d’atletica (vero motivo culto dell’Italia anni ’90, tant’è che persino gli inglesi ne presero in considerazione l’utilizzo, travolti dal problema Hooligan e bisognosi di allontanare gli spettatori dal terreno di gioco, idea poi, per fortuna della Premier League, sepolta in cantiere), l’assenza di coperture adeguate durante le stagioni invernali, il macchinoso sistema per l’acquisto dei biglietti (quasi del tutto assente la vendita online dei ticket delle partite), non permettono. “E’ la somma che fa il totale” avrebbe detto Totò, ma è quanto meno curioso che mentre la tendenza, oggi, sia quella di riportare le persone allo stadio, in alcuni casi ampliando gli impianti o costruendone di nuovi (caso ultimo quello del West Ham che sta per passare dallo storico Upton Park e i suoi 35.016 spettatori all’Olympic Stadium da 80.000 posti a sedere), in Italia si tenda a ridurre la capienza per favorire il colpo d’occhio televisivo ed agevolare uno zoccolo duro di tifosi. Un impianto più piccolo con servizi maggiori e quindi con un pubblico diverso, ‘selezionato’, in quanto il costo dei biglietti è destinato ad aumentare, con il rischio concreto di avere lo stesso enormi vuoti, come è accaduto in occasione della sfida di Champions League 2012/13 tra la Juventus e lo Shakhtar Donetsk. I bianconeri sono passati dai 67.229 dell’ex Delle Alpi ai 41.475 dello Juventus Stadium e sembra avere destino analogo il Milan (dagli 80.018 di San Siro ai 40.000 del nuovo stadio progettato per l’area Fiera di Milano e che oggi però sta riscontrando pareri contrari dalle amministrazioni), meglio invece la Roma, con il progetto del nuovo impianto (dai 72.698 dello Stadio Olimpico ai 60.000 della struttura che dovrebbe sorgere a Tor di Valle). Passiamo in rassegna alcuni dei principali modelli, europei e non, sulle questioni stadio e spettatori.
British Style… Quando il football diventa business
Il modello inglese è certamente il più famoso e quello più volte finito alla ribalta sui titoli dei giornali, preso spesso come riferimento principale per il nostro campionato. Gli stadi inglesi, ma più di tutto l’intero prodotto Premier League, che ricava 1.4 miliardi di Euro dalla vendita dei propri diritti televisivi, è la metafora perfetta del calcio che diventa business, di una lega che è certamente tra le più all’avanguardia dell’intero pianeta calcio. Sono stati gli inglesi ad introdurre la partita alle 12:30, per ragioni prettamente commerciali. La sfida delle 12:30 corrisponde al prime-time in molti paesi dell’Asia, che pagano fior di milioni per vedere le sfide della Premier League, per questo non c’è da meravigliarsi se in questi orari ci ritroviamo con un Chelsea-Manchester United. Nella Serie A siamo ancora lontani dal proporre un Milan-Inter alle 12:30 e se per i nostalgici di un certo tipo di calcio legato al fruscio delle radio e a ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ questa è una buona notizia, capirete certo che vendere un prodotto in Asia che nel suo prime-time manda in onda Sassuolo-Carpi risulta più complicato e genera certamente un appeal differente. Oggi non si può non prescindere dagli introiti dei diritti televisivi e questa è una delle ragioni che hanno reso il nostro campionato molto meno competitivo sul mercato da un punto di vista economico. Nonostante però la Premier League sia un prodotto maggiormente vendibile rispetto alla Serie A sul mercato internazionale, gli stadi inglesi riescono sempre a fornire un discreto colpo d’occhio, facendo registrare spesso il ‘sold out’ alla casella dei ticket in vendita. Per comprendere a fondo la rivoluzione del British Football dobbiamo fare un passo indietro, al Taylor Report, misura necessaria dopo le stragi di Bradford, dell’Heysel e di Sheffield che portarono alla morte rispettivamente di 56, 39 e 96 persone. Lord Taylor di Gosforth, ministro di giustizia inglese, fu incaricato dal primo ministro Margaret Thatcher di redigere un dossier che ponesse al centro dell’attenzione le cause che hanno portato a quegli episodi di violenza. Lo stato si impegnò a realizzare direttive forti che dovevano essere rispettate a pieno dai club, pena l’esclusione dai campionati. Le società furono costrette a dotarsi di mezzi di sicurezza, personale autorizzato e sistemi di telecamere per controllare la situazione all’interno degli stadi, gli Hooligan furono così rimpiazzati da bambini e famiglie. Nel 1991 la normativa fu rivista e potenziata con il ‘Football Offences Act’ che stabilì pene durissime (dall’esclusione dagli stadi fino alla galera) per chi violasse i regolamenti all’interno degli impianti. La maggior sicurezza, il comfort e la possibilità di potersi recare all’impianto fino a pochi istanti prima dell’evento in un posto prenotato e riservato, hanno agevolato l’affluenza agli stadi. Le persone pagano di più (anche se in pochi possono permettersi i 1.273 euro di abbonamento all’Emirates per guardare le partire dell’Arsenal nel settore più economico, niente paura però! C’è anche il Manchester City con il prezzo più basso della Premier, 375 euro) per gustarsi un evento, più che una partita, che ha pochi eguali in altre parti del globo. Inoltre, una legge degli ultimi anni agevola ulteriormente l’affluenza agli stadi. In Inghilterra non possono essere trasmesse partite in tv il sabato, tra le 14:45 e le 17:15. Le partite di Premier League delle 16:00 al sabato o le si vedono allo stadio o da nessun altra parte, tutto questo per agevolare i club e permettergli incassi maggiori ai botteghini aumentando così l’affluenza agli stadi, e per quello che riguarda la messa in onda delle immagini delle partite, il tutto comincia quando l’impianto è pieno o quasi. La tendenza degli ultimi anni in Inghilterra è quelli di ampliare gli impianti, oggi l’Arsenal gioca in uno stadio da oltre 60.000 spettatori, l’Emirates, al netto dei 38.419 del vecchio Highbury. Non hanno problemi di capienza e non se ne pongono, il Manchester United, sempre fedele all’Old Trafford ed ai suoi 75.731 spettatori, il Manchester City con i 60.000 dell’Etihad, il Newcastle United con i 52.387 del St. James’ Park. In termini di capienza la fa da padrone lo stadio delle finali, Wembley, con i suoi 90.000 posti a sedere, sempre sold out per le grandi occasioni. In Inghilterra il calcio ormai si è fatto business nella sua totalità e se da un lato è certamente la lega calcistica più al passo con i tempi, dall’altro i nostalgici rimpiangono il football che odorava di tabacco, birra e fish & cips dell’Inghilterra dei Sir. Alf Ramsey e Sir. Bobby Charlton, una visione più romantica e anacronistica rispetto al teatro che oggi rappresenta la Premier League, perché per chi ha qualche anno in più sa bene in fondo che Emirates non avrà mai il fascino dei bordi in stile dèco dell’impianto di Highbury.
La fiesta esta aquì? Esta es España…
Se il modello inglese è certamente quello maggiormente impregnato dal business e da quello che gli americani chiamano ‘Entertainment’, ovvero intrattenimento, nel senso più puro del termine, trasformando una partita di calcio in uno spettacolo a 360°, la Spagna è un’evoluzione del nostro sistema. Il contesto latino agevola le similitudini, non certo però la bellezza degli impianti dove gli spagnoli hanno un netto vantaggio, compresa l’affluenza, dove su tutti, il colpo d’occhio del Camp Nou, dall’alto dei suoi 99.354 spettatori, è sempre mozzafiato, anche nelle occasioni non di gala, come il Trofeo Gamper, ennesimo ‘sold out’ quello di pochi giorni fa, contro la Roma. Il modello delle società spagnole agevola una maggiore coesione tra i club e gli spettatori, parte integrante del progetto, nonché soci e azionari delle squadre. Gli esempi più lampanti sono proprio il Barcellona e il Real Madrid, ma anche l’Athetic Bilbao. Essere soci del club significa avere notevoli vantaggi in termini di servizi che la società ti può offrire, dagli sconti negli store ufficiali ai posti migliori riservati, fino alla voce in capitolo nell’elezione del presidente, che determina il futuro della squadra nelle scelte sul mercato. Con questo modello i tifosi sono così nucleo pulsante e attivo del club, generando così un legame identitario fortissimo. Non si è più semplici tifosi del Barcellona o dell’Athletic Bilbao, si è il Barcellona, si è l’Athetic Bilbao, e questo grossomodo tende ad incidere. In Spagna lo stadio diventa la sede di una festa, a differenza dell’Italia il campionato non si ferma per la pausa natalizia e spesso ai bambini viene regalata, per Natale, una giornata allo stadio. E’ usuale, per un tifoso blaugrana, assistere ai primi di gennaio ad un Barcellona-Valladolid, acquistare il biglietto via internet (a quest’indirizzo) dove è possibile scegliere, come il check-in online di un aereo, il posto a sedere e prendere visione, direttamente dal sito ufficiale del Barcellona, della visuale con un video in 3D del terreno di gioco dalla propria poltrona. Gli impianti sono inoltre dotati di ristoranti e fast food per poter così trascorrere l’intera giornata allo stadio. Nei pressi delle strutture, inoltre, sono presenti interi store dedicati ai prodotti ufficiali della squadra e si va dalle classiche tenute di gioco ai lecca-lecca e ai peluche raffiguranti i calciatori. Anche in Spagna si sta ragionando sull’ampliamento degli impianti sportivi, Barcellona e Real Madrid hanno già pronti i progetti per il nuovo Camp Nou e il nuovo Santiago Bernabeu, aumentandone in entrambi i casi la capienza, l’Athletic Bilbao ha demolito la ‘cathedral’ da 40.000 posti per trasferirsi nell’adiacente nuovo San Mames da 53.289, l’Atletico Madrid è pronto ad abbandonare lo storico ‘Vicente Calderon’ da 54.907 spettatori per spostarsi all’Estadio Olimpico de Madrid da 70.000 posti. Mentre l’Italia chiude i propri stadi, rendendone sempre più complesso l’accesso e diminuendo la capienza dei propri impianti, la Spagna apre le proprie strutture a sempre più persone che possono partecipare in comunione al club ad ogni partita che si trasforma in una vera a propria festa.
Bundesliga… Uber Alles
Partiamo subito con lo sfatare un mito, in Germania un solo stadio è di proprietà del club, anzi, di due club, perché poi l’impianto sarebbe lo stesso. Parliamo dell’Allianz Arena, casa del Bayern Monaco e del Monaco 1860. Tutti gli stadi sono stati ricostruiti o ristrutturati in occasione dei mondiali del 2006, a differenza di quanto fatto per Italia ’90, uno dei tanti scandali politico-economici che (non) hanno fatto notizia (o l’hanno fatta fino ad un certo punto) e che hanno avvolto il nostro paese. Per statuto, inoltre, i club tedeschi devono appartenere ai tifosi, o almeno il 50% + 1 delle quote azionarie. I tifosi quindi, come nel caso spagnolo, hanno potere decisionale su tutte le scelte della società in quanto rappresentano la società stessa. Se vogliamo è una scelta addirittura che si fa preferire rispetto al modello inglese, dove i tifosi non sono più tali ma divengono dei clienti, il problema Hooligan è stato risolto con un regime oppressivo che ha allontanato i tifosi dal terreno di gioco. In media stat virtus, è errato ritenere gli Ultras il solo male del calcio, quando le loro manifestazioni sfociano nella violenza è giusto allontanarli ed arrivare a misure estreme, come può essere la galera, ma togliendo il fascino delle scenografie, dei cori ritmati e anche dei tamburi di fine anni ’80, si rischia di spersonalizzare ogni impianto. Proprio negli anni ’80, la Bundesliga era il campionato meno seguito al mondo, facendo registrare una media di 20.000 spettatori, oggi è tra i più seguiti con 45.000. Un’altra caratteristica del modello tedesco la si riscontra al momento dell’acquisizione dei biglietti alla voce ‘posti in piedi’. Ebbene sì, ci sono aree, nelle gradinate alle spalle delle porte, dove è possibile seguire la partita all’in piedi per un prezzo che non supera i 15 euro. Il prezzo più alto per un biglietto non supera i 50 euro e l’abbonamento per i posti in piedi è acquistabile per una cifra nettamente inferiore ai 200 euro, raramente supera questa quota, fatta eccezione per i mini abbonamenti che prevedono anche l’aggiunta delle partite casalinghe di Champions League. Nel prezzo del biglietto sono inoltre compresi altri svaghi, su tutti la possibilità di utilizzare i ristoranti ed i bar presenti all’interno dell’impianto. Se prendiamo ad esempio l’ultima partita tra il Borussia Dortmund e la Juventus negli ottavi di finale della scorsa Champions League, spendendo 50 euro si aveva diritto anche ad una cena a buffet, da consumare prima, durante e dopo la partita, e fiumi di birra, tutto incluso nel prezzo, senza l’aggiunta di un solo euro. I prezzi più cari si trovano ovviamente all’Allianz Arena, ma comunque non superano i 70 euro (a differenza degli oltre 150 euro per alcuni eventi nel nostro campionato ed in quello spagnolo), dove si ha la possibilità di acquistare una tribuna vip ed assistere ad un’esperienza unica che supera il concetto di una semplice partita di calcio.
Stadio | Biglietto Vip (€) | Costo minimo (€) |
Signal Iduna Park | 53,30 | 14 |
Allianz Arena | 70 | 21 |
BayArena | 68 | 6 |
Volskwagen Arena | 44 | 11 |
San Siro | 155-180 | 23-28 |
Juventus Stadium | 300 | 30 |
Fonte: dodicesimo uomo.net
U.S.A. State of Mind…
In un mondo sempre più avvolto dalla globalizzazione non si può non gettar più di uno sguardo al di là dell’oceano, dove troviamo i maestri dell’intrattenimento, fautori delle prime due leghe, in termini di sviluppo economico, business ed avanguardia, del globo, la NFL e la NBA. E non meravigliamoci se, nel giro dei prossimi dieci anni, la MLS, la lega americana del soccer (perché per loro il football si gioca con le mani ed ha una palla ovale), per forza economica, si ritaglierà un posto nell’elite del calcio mondiale. La concezione di sport che hanno gli statunitensi è totalmente differente dalla nostra. Vi sarà capitato nella vostra vita, che qualcuno vi venga a proporre una serata in un locale, di seconda mano o meno, con la formula dell’“All You Can Eat”, ovvero buffet a prezzo fisso nei quali si possono consumare cibo e bevande in maniera illimitata. Cosa c’entra questo con lo sport americano? Tantissimo, in quanto ci sono posti negli stadi che prevedono la stessa formula. Dopo aver occupato la tua poltrona, prenotata e scelta su internet, puoi consumare tutto il cibo che vuoi, dalle noccioline a prodotti di rosticceria, e bere tutta la birra o la coca che vuoi e questo anche nei posti meno “in”. Perché ovviamente nei posti “vip” c’è la cameriera che, fino a bordo campo, ti viene a servire, anche durante i match, la cosa spesso diventa divertente considerando che, ad esempio, il bordo campo della NBA è a un metro dal parquet dove si gioca. La massima rappresentazione di ciò che è lo sport negli Stati Uniti è il Superbowl, in altre parole la finale del campionato di football della NFL, dove la partita in se per se diviene quasi l’evento marginale. Eppure si tratta di una finale nella quale è possibile assistere al concerto di Beyoncè o Bruno Mars, a spettacoli pirotecnici, a grandi marchi internazionali che si sfidano con spot propagandistici milionari generando pubblicità che somigliano a dei veri e propri mini-film, chiamando in causa anche attori presi in prestito da Hollywood.
E’ il modello inglese portato all’estremo, nel suo eccesso. Lo sport negli Stati Uniti è business e promozione di un prodotto a livello mondiale, il Superbowl e le NBA Finals hanno un’utenza globale, nonostante il fuso orario non agevoli, molti cittadini europei assistono per televisione a questi eventi. L’obiettivo però non è quello di allontanare la gente per favorire lo “Stadio Virtuale”, tanto caro ad Aurelio De Laurentiis (nonostante il Superbowl abbia una media ascolti di circa 111,5 milioni di spettatori, uno stadio virtuale bello grande), bensì quella di portare la gente negli stadi e nei palazzetti per permettergli di assistere ad uno spettacolo unico nel suo genere. La NBA già da qualche anno gioca alcune partite della sua regular season a Londra, alla ‘O2 Arena’, e presto farà la stessa cosa anche la NFL. I commissioner di queste due leghe cercano di sfruttare al massimo tutto ciò che il mercato mondiale può offrirgli per poter fatturare cifre sempre maggiori ed offrire così uno spettacolo sempre più all’avanguardia. In Italia invece, oggi, sembra esserci la tendenza ad andare controcorrente. Stiamo riducendo la capienza dei nostri stadi e all’estero vendiamo un prodotto che non attira la gente (in cui incide anche la proposta tecnica di calcio delle nostre squadre che negli ultimi anni è ai minimi storici). Le persone rinunciano ad andare allo stadio sia per motivi economici che per ragioni logistiche. Lo spettacolo proposto è di scarso livello, i nostri impianti sono fatiscenti, i trasporti pubblici ed i servizi di metropolitana non sono all’altezza dei fruitori per questo ci si reca allo stadio in macchina ed essendo gli stadi nel centro della città (e non in aree isolate come enormi parcheggi, come sono stati pensati negli U.S.A.) va ad aggiungersi anche il problema del posto auto, spesso inoltre bisogna recarsi all’impianto fino a tre ore prima di una partita per accaparrarsi il posto migliore e la visione dell’evento è l’unica “garanzia” a cui il biglietto ti dà diritto, nessun buffet, nessuno spettacolo prepartita, niente. Aggiungiamoci inoltre che il nostro calcio non è più di primo livello ed ecco che otteniamo stadi vuoti e la necessità di ristrutturarli e ridurne la capienza. Forse manca il coraggio, o forse si preferisce favorire quella che nonostante tutto è ancora la prima fonte di guadagno dei club della nostra serie A, ovvero le televisioni. In Italia quindi il primo cliente da soddisfare è lo spettatore della TV, il tifoso che va allo stadio diventa quasi un peso, una preoccupazione per le società. Si sono introdotte gabbie e tornelli, i sistemi d’acquisizione dei biglietti sono obsoleti e lenti, l’acquisto online è spesso inesistente e i prezzi sono molto alti. L’ingrediente perfetto per un sistema che sta andando verso il fallimento. Eppure è il calcio, non la religione, l’oppio dei popoli, è il cibo con cui idealmente si sfamano milioni di persone e l’Italia è tra i paesi più ‘affamati’. L’anima del calcio è nei ceti più bassi, come l’identità di un popolo, e allontanarla dallo stadio significa cancellarne il significato che va al di là di ciò che vediamo, che, come scriveva Galeano, fa piangere il Maracanà per la sconfitta brasiliana nel mondiale del 1950, fa trepidare i tamburi di mezzo secolo fa nella Bombonera di Buenos Aires, fa risuonare gli echi dei cantici cerimoniali nello stadio Azteca per l’antico gioco messicano della pelota, fa parlare in catalano il cemento del Camp Nou e conversare in euskera le gradinate del San Mamés.
Servizio a cura di Andrea Cardone
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