C’è vita su Marte: e in quei gesti ormai meccanici, e però ispirati dal talento, in quella esuberanza racchiusa e (paradossalmente) sintetizzata da settantanove reti e prodezze da lasciar senza parole, c’è la prova provata che un marziano è sceso sulla terra, con la sua energia e la fisicità d’un dio greco. C’è un uomo solo al comando: la sua maglia è azzurra e il suo sguardo conduce all’infinito, lì dove giacciono i sogni popolari d’una Napoli che ormai ondeggia tra il mito e la realtà; e tra le ombre d’una serata divenuta improvvisamente meravigliosa, in quel quarto d’ora di pura, autentica, gioiosa follia calcistica, c’è il senso pieno dell’estetica, la solennità di carezze distribuite a una città ormai di lui innamorata pazza. Si scrive Cavani e si traduce in goleador o in bomber o in idolo: ma in quell’orgia che diviene Napoli-Dnipro, tra le pieghe d’un 4-2 autografata di proprio pugno, quando passa la nottata ci si può tranquillamente stropicciare gli occhi per accorgere che non è finzione, che è fantastico o meraviglioso, che è unico o semplicemente (!?) grande, ch’è galattico o ineguagliabile, che è un vocabolario denso d’emozioni da saccheggiare in cerca dell’aggettivo ideale. « Ma io sono semplicemente uno che fa quello che deve, in una squadra nella quale ognuna dà quello che può, anzi di più».
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