Il buio era arrivato presto anche in Sudafrica. Ricordiamo ancora cosa scrivemmo la sera di Italia-Costa d’Avorio 0-1 a Londra, la prima amichevole di Cesare Prandelli, nell’agosto del 2010. Parlammo di una strada lunga e difficile per tornare a rivedere una squadra di calcio. Pensavamo, allora, proprio a questo Mondiale come punto d’arrivo. Invece, battendo tutti sul tempo, Prandelli ci aveva mostrato con due anni di anticipo una delle più belle nazionali di sempre, sconfitta nella finale dell’Europeo del 2012 da un’avversaria allora incontenibile.
Quella Nazionale non è stata un’illusione, ma il frutto di un gioco vero. Non era nata per caso, ma con un lavoro profondo, basato sulla costruzione di una squadra come se fosse un club. Certo, adesso che il buio è tornato d’improvviso, si può dire che Prandelli abbia sbagliato (e ha sbagliato), ma non perché ha insistito col gioco.
IL GIOCO. E’ la strada del calcio italiano, non ne esistono altre, soprattutto adesso, perché non abbiamo i giocatori. Intendiamo giocatori di qualità, come la Germania, come la Francia. Per rifondare il calcio, quello sul campo, dobbiamo ripartire da questo valore assoluto: giocare, proporre, attaccare. Come aveva fatto l’Italia all’Europeo e come non è riuscita a fare al Mondiale. Ma la vera rifondazione del nostro movimento deve incidere su altri versanti, deve portare a un rinnovamento feroce.
Si possono riascoltare le parole del nostro ultimo ct, pronunciate un’ora dopo la fine di Italia-Uruguay. «Si può ripartire con la volontà da parte di tutti di svoltare, con un progetto tecnico che parta dal settore giovanile. Abbiamo perso il modo di fare calcio, ci sono tanti stranieri, ci sono tante partite nel nostro campionato, ci vorrebbe più collaborazione. La nostra è una delle poche nazionali che in trasferta non ha il supporto dei tifosi. Certo, tocca a noi conquistarli, ma in partenza sono insulti e fischi. Non abbiamo senso patriottico, fischiamo il nostro inno. Partiamo dai giovani e cerchiamo di far capire i veri valori del calcio».
La sua mente bolliva perché aveva appena annunciato le dimissioni, ma non aveva perso del tutto la lucidità. In quell’analisi ci sono i punti su cui lavorare, su cui ricostruire, chiarendo però una domanda iniziale e fondamentale: la Nazionale rappresenta il calcio italiano? Se la risposta è sì, allora si deve lavorare in una direzione precisa. Se la risposta è no, della Nazionale non frega niente a nessuno (o comunque a pochi), allora possiamo restare così come siamo, sperando in generazioni più generose di talenti e in condizioni fisiche meno stressate quando arrivano Europei e Mondiali, e lasciando che il calcio venga maneggiato da chi lo interpreta come business.
La rivoluzione. Finora la risposta è una via di mezzo. Interessa, ma solo al Mondiale, solo all’Europeo. Ma un torneo come quello si prepara in due anni. A una squadra di club mica si toglie lo spazio di una preparazione, con amichevoli, allenamenti, test fisici, prima del campionato. Così, se vale la prima risposta, se vogliamo tutti insieme evitare che si ripeta un fallimento mondiale per la terza volta consecutiva, ci aspetta un lavoro duro, pesante, che farà vittime a ogni livello. Dobbiamo cambiare la testa, lavorare sui giovani, in campo e fuori. Servono le strutture, serve una rivoluzione totale dei campionati. Abbattere i costi, ma al tempo stesso investire, senza restare appesi alle tv, vere padrone del calcio. Ci vuole passione per un lavoro come questo. Ce ne vuole tanta.
Fonte: Corriere dello Sport
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