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Fabio Cannavaro ricorda Boskov: “Maestro di vita unico”

La prima immagine che mi è venuta in mente? Quel pomeriggio a Soccavo». Si ascolta la risata di Fabio Cannavaro da Dubai, dove si è trasferito quattro anni fa, aprendo la carriera di allenatore dopo aver chiuso quella di calciatore. Pensa a Vujadin Boskov, il suo quarto allenatore nel Napoli a metà degli anni Novanta, scomparso domenica, e si illumina.

Racconti, Cannavaro, cosa successe quel pomeriggio?
«Eravamo tornati da Oporto, dopo la trasferta di Coppa Uefa, e trovammo un altro allenatore: Boskov aveva sostituito Guerini. Ci convocarono al campo Paradiso per l’allenamento e arrivai alla guida della cabriolet. Ero giovane, però già titolare nel Napoli e avevo vinto pochi mesi prima l’Europeo under 21. Scendo all’auto e vado verso Boskov, che stava raggiungendo a piedi lo spogliatoio. E lui mi disse una cosa incredibilmente divertente».
Cioè?
«“Mi avevano detto che eri un bel ragazzo, con gli occhi azzurri e la camicia bianca: io chiamerò i tuoi genitori, gli dirò che non devi uscire la sera e che devono controllarti”».
La sua reazione?
«Lo rassicurai, gli dissi di non preoccuparsi, perché ero giovane ma professionista: sapevo quali erano i miei doveri». 
Chiamò mai Pasquale e Gelsomina, i suoi genitori?
«No, mai».
E ricorda la prima partita?
«La giocammo contro il Bari. Negli spogliatoi Boskov ci disse che Napoli aveva due milioni di abitanti e Bari appena 300mila e che una squadra che rappresenta due milioni di persone deve vincere. Finì 3-0 per noi». 
Sembrava, anche agli occhi dei cronisti, che Boskov lasciasse molta libertà ai giocatori.
«Diceva le cose con il sorriso, a volte faceva finta di non capire ma invece controllava tutto: un figlio di buonadonna, nel senso positivo dell’espressione. Nel nostro spogliatoio c’era Pari, che era stato uno dei leader della sua Sampdoria, però Boskov trattava tutti allo stesso modo. Ascoltava, si confrontava, ti trattava da uomo, ma esigeva il rispetto delle regole. Voleva che indossassimo le divise sociali, cravatta e capelli sempre a posto». 
Domenica lei ha ricordato Boskov su Twitter con una delle sue frasi: chi tira mai sbaglia. 
«Lo diceva in continuazione e non solo agli attaccanti. Nella prima partita del ’95 ci capitò di andare a giocare contro il Milan al Meazza, uno stadio evidentemente fortunato in quella stagione, perché un mese prima avevamo battuto l’Inter e non accadeva da una vita. A sette minuti dalla fine perdevamo per 1-0, Benny Carbone mi lanciò il pallone e io segnai, aiutato anche dall’errore del portiere Rossi. Negli spogliatoi Boskov mi disse: “Hai visto? Chi tira mai sbaglia”. Fece i complimenti a me e anche a se stesso». 
Non era un maniaco della tattica. 
«Erano altri tempi, gli allenatori preparavano diversamente le partite. Ma Boskov, che aveva allenato grandi club come il Real Madrid e aveva vinto lo scudetto con la Sampdoria pochi anni prima, era un innovatore. Lavorava molto sulla fase offensiva, ad esempio. Ricordo che un giorno fece dividere il campo in senso verticale per la partitina di metà settimana. Ci chiedemmo tutti perché: era il suo modo per allenarci ad attaccare. E poi il riscaldamento prima dell’allenamento: un tocco e colpo di testa, adesso i calciatori ti guarderebbero storto, temerebbero lo stiramento». 
Il Napoli di Boskov e Cannavaro chiuse il campionato al settimo posto. 
«D’un soffio fallimmo la Coppa Uefa, non bastò la nostra vittoria all’ultima giornata perché vinse anche l’Inter. Ci tenevamo tutti e non soltanto per una questione di prestigio. Erano anni difficili per il Napoli sotto l’aspetto economico e Boskov sapeva che avremmo potuto avere qualche speranza in più conquistando la qualificazione in Europa. Invece, niente. Poche settimane dopo venni ceduto al Parma per ragioni di bilancio». 
Boskov come la prese?
«Lui conosceva bene la situazione societaria anche se cercava di non trasmettere tensione all’interno del gruppo. Mi stimava, quell’anno c’era stato un bel rapporto e alla fine mi disse che ero giovane e avrei dovuto fare nuove esperienze. Non ci siamo più incrociati, neanche da avversari, ma quei mesi con Vujadin li ricordo ancora. La vittoria sull’Inter, il pari col Milan, la rimonta sulla Lazio…».
Lei, capitano della Nazionale campione del mondo, è diventato allenatore un anno fa: cosa le ha insegnato Boskov?
«Aveva un carisma straordinario, una profonda conoscenza calcistica e un’assoluta cultura: parlava tante lingue, aveva girato il mondo. Gli allenatori di quel periodo – parlo anche di Bianchi, che mi fece esordire in A, o di Guerini – avevano un rapporto diverso con i calciatori: c’era dialogo, potevano esservi relazioni difficili ma il confronto portava alla conoscenza reciproca. Oggi ci manca Boskov, ci manca tutto questo. Forse gli allenatori hanno meno tempo o, più semplicemente, restano troppo poco in uno spogliatoio». E gli scappa un’altra risata: è l’ironia del napoletano della Loggetta che è stato allievo del napoletano di Novi Sad.

fonte: il mattino

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