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Fabio Cannavaro: “Italia violenta come Argentina e Brasile. Grande stagione per Juve e Roma, deluso dal Napoli …”

Chilometri zero. O quasi. Argentina, giugno 2013: Javier Jerez, tifoso del Lanus in trasferta a La Plata, muore nel corso degli scontri con la Policia Bonaerense per un colpo di pistola sparatogli in pieno petto, e l’Afa vieta per un anno tutte le trasferte (dalla Primera alle serie minori).
Italia, maggio 2014: Ciro Esposito, tifoso del Napoli in trasferta a Roma per la finale di Coppa Italia con la Fiorentina, viene colpito da un colpo di pistola alle spalle nel corso di una rissa tra sostenitori azzurri e colleghi romanisti, e Daniele De Santis, ultras giallorosso, è accusato di tentato omicidio.
Cronache di guerra: non è mica calcio. Ed è per questo che incrociare Fabio Cannavaro dopo Napoli-Cagliari, nella notte dolce del Lungomare, con quattro amici e il solito splendido sorriso, fa una certa sensazione: lui, il napoletano più vincente della storia dello sport, il Pallone d’Oro e il campione del Mondo, il campione di tutti, è come un fiore nel cannone dei violenti. «Morire per il calcio è assurdo. Inaccettabile: non si parla di tifosi, ma di delinquenti e basta» .
Lo sa Javier, vittima numero 189 della folle saga del calcio argentino; lo ha scoperto Ciro, leone ferito in lotta. «L’Italia, ormai, sembra il Sudamerica» .
Parole amare.
«E’ tanta l’amarezza. La tristezza. Purtroppo, però, i fatti di Roma sono l’ennesimo esempio di una situazione degenerata negli anni attraverso i feriti e i morti».
L’Italia quindi è diventata come l’Argentina e il Brasile, tanto per citare due esempi tremendamente noti?
«La deriva è quella: bisogna darsi alla svelta una regolata. Ma per davvero: ripeto, morire per il calcio a 30 anni è una follia. Spero con tutto il cuore che Ciro vinca la sua battaglia».
Ha visto Napoli-Cagliari?
«No».
E la finale di Coppa Italia?
«Sì, a Dubai: il commento era in arabo, e dunque in un primo momento non avevo capito cosa stesse accadendo di preciso. Poi mi sono informato e ho cominciato a collegare tutto quello che avevo davanti agli occhi. E ho letto un’altra pagina negativa del nostro italiano: peccato, non abbiamo proprio bisogno di veicolare messaggi del genere».
Cosa ha pensato in quei momenti drammatici?
«Mi ha colpito l’impotenza dei nostri potenti. Sì, ho potuto carpire questa sensazione osservando i volti delle persone importanti del nostro Paese presenti in tribuna».
Se fosse stato all’Olimpico al posto di Hamsik, da capitano, sarebbe andato anche lei a parlare con gli ultras?
«Il colloquio non deve essere visto come una forma di debolezza. E secondo me bisognerebbe chiedersi il perché, uno ci va, e il perché dei rapporti che ci sono tra i giocatori e i tifosi: probabilmente, sono le società a dare forza ai tifosi».
Come si può riuscire a debellare il problema della violenza nel calcio?
«Con le leggi dure. E con l’applicazione delle leggi stesse: ci sono e debbono essere fatte rispettare. In Inghilterra ci sono riusciti con gli hooligans, e anche in Spagna sono riusciti a restringere al minimo il numero degli ultrà».
Lei parla di Ultrà, come si diceva una volta: oggi si definiscono Ultras.
«Una volta erano le botte, poi sono arrivati i coltelli e oggi le pistole: questi non sono ultrà, ma delinquenti. La gente ha paura dello stadio, finisce che non ci andrà più: i club devono investire nei vivai, nei centri sportivi e negli impianti. Devono renderli sicuri. E’ come quando uno si sposa: compra subito casa e la vuole rendere accogliente».
Lei era un ragazzo della curva?
«Sì, sono nato a due passi dal San Paolo, la curva B era casa per tutti noi giovani del quartiere. La mentalità ultrà, però, è cambiata. Degenerata. E già parliamo di una mentalità particolare, non so se giusta o sbagliata. E comunque ci sta portando troppi problemi».
Ha avuto sperienze dirette?
«Ho amici ultrà. E per quanto siano amici, abbiamo affrontato spesso l’argomento e la diversità delle nostre opinioni. Vivendo a Dubai è da un po’ che non mi capita di parlarne».
A proposito: complimenti, signor vice allenatore dell’Al-Ahli. Progetti per il futuro?
«E’ un’esperienza molto positiva: abbiamo conquistato cinque trofei in quattro stagioni e puntiamo a vincere sesto a fine maggio. Poi, parlerò con il presidente e valuteremo».
A giugno, invece, ci sarà il Mondiale: magari va a finire come nel 2006 dopo il caos?
«Ma no, mica conquistammo la Coppa per Calciopoli: vincemmo perché eravamo i più forti, spero che accada anche in Brasile. Nel frattempo, guardo le semifinaliste di Champions con un pizzico di orgoglio: Mou, Ancelotti e Simeone hanno portato un pizzico di italianità alle loro squadre. Alla fine sono le idee del tecnico a fare la differenza».
Bella la finale tra il suo Real e l’Atletico del Cholo.
«Molto, sì. E anche molto aperta».
La Juve, invece, continua a faticare in Europa.
«Le serve ancora un po’ di qualità. In Italia però è avanti».
Come giudica i campionati disputati dal Napoli e dalla Roma?
«La Roma di Garcia ha fatto bene, mi aspettavo invece qualcosa in più dal Napoli di Benitez: a gennaio era già praticamente fuori dai giochi, ma credo che dopo il secondo posto e gli investimenti fatti sul mercato avrebbe invece dovuto lottare per lo scudetto fino alla fine. La conquista della Coppa Italia ha addolcito il tutto. Certo, di regola per arrivare a vincere ci vogliono tre anni, ma è anche vero che Conte con la Juventus ci è riuscito alla prima stagione».

fonte: Corriere dello Sport

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