Il vuoto, poi un’ombra che avvolge e il senso (autentico) della tristezza che travolge; le voci che diventano frastuono assordante e persino insopportabile, il caos dentro, mentre s’insegue un piccolissimo perché. Sei mesi, l’inferno, le fiamme che divorano, un vulcano ed un’esplosione: stavolta è vero, terribilmente vero, e l’ultimo appiglio nella fiducia si sgretola all’alba d’un nuovo malinconico (e inaccettabile) giorno che stavolta non scivola su quella maschera che adesso Paolo Cannavaro non regge più. Eppure era già tutto previsto, ma quando squilla il telefono che annuncia (e conferma) la sentenza, le porte dell’oblio si spalancano e le fitte dolorose sono figlie di lame sparse che si conficcano soprattutto nella testa, che affondano nella pelle, nella carne: ferite che lacrimano e rigano il volto d’un uomo «limpido, trasparente», al quale Enrico Fedele, il manager di sempre, prova a fare coraggio per quel che può. «C’è indignazione, nonostante avessimo capito da un po’ che s’andava incontro ad una condanna del genere. Ma io conosco Paolo da quando era bambino e so quali siano i valori che hanno improntato la sua carriera. E conosco Grava da altrettanto tempo: e so da quali sentimenti sia animato. Ma anche i tifosi sono informati sulla serietà di entrambi. La gente è con loro e Paolo, ne sono certo, tornerà più forte di prima».
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