OPORTO – E poi c’è un «nuovo» Napoli, persino inedito, l’altra «faccia» della luna: perché se si prova a chiamare i moduli nella versione più appropriata, quarantacinque minuti di sano contropiede all’italiana, rappresentano lo spirito mai seriamente mostrato sinora, manco a Firenze, in quel 2-1 un po’ rocambolesco, e neppure con la Roma. E poi c’è un Benitez in versione meno spregiudicata, che lascia idealmente il 4-2-3-1 da interpretare e però chiede agli esterni di abbassarsi, di allineare solidamente il centrocampo, di modellarsi in maniera massiccia (e quasi ideologica) al 4-4-1-1, di resistere al Porto, a qualche sfuriata e a qualche inziativa. Il minimalismo che non t’aspetti è in quel primo tempo demodè (secondo il codice-Benitez), nel quale c’è la concessione al «nemico» del possesso e l’occupazione dello spazio attraverso la densità; insomma, il desiderio di andar di calcolo, prima non prenderle, e il resto, verrà da sè (eventualmente) o nella combinazione più congeniale (quella che prevede la corsa in avanti) d’una squadra che riconferma di avere armi letali, capaci di far male sempre e comunque, pure nel ritorno. Estadio do Dragao, il Napoli sceglie due maschere, quasi per disorientare, lo fa attraverso una rivoluzione inaspettata non solo negli uomini ma pure nel meccanismo con cui costruisce o prova a farlo: preferisce il contenimento, abbinandosi nella zona con mediani di interdizione, e sacrificando Inler e Dzemaili, gli unici (in assenza di Jorginho) a palleggiare soprattutto in verticale. Ne viene fuori una riproduzione un po’ scarabocchiata, certo contraddittoria, ma sul passaporto per i quarti si può ancora apporre il timbro: stavolta, probabilmente, rinunciando alla versione all’italiana e rilanciando, prepotentemente, quella dimensione europea.
Fonte: Corriere dello Sport
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