Non ha potuto gustarsi il trionfo del suo Latina approdato per la prima volta nella propria storia in serie B. Intoppi del mestiere, specie quando le aspettative sono tante ed i traguardi da raggiungere esigono risultati e non ammettono pazienza. Forse questa soddisfazione Emanuele Troise, vice di Fabio Pecchia in terra pontina, l’avrebbe meritata. Poco male: in definitiva la sua carriera di allenatore ancora deve iniziare. E fare il callo alle pressioni e agli esoneri può servire anche in futuro per rinvigorire tempra ed esperienza. Eccome. “Ma questa promozione del Latina la sento un po’ anche mia – puntualizza Troise, presente quasi quotidianamente agli allenamenti del Team Napoli Soccer, la sua dimora fissa degli ultimi anni da calciatore -. E posso parlare anche a nome di Fabio. Logicamente vanno fatti i complimenti a Sanderra, alla società e al ds. Ma questa squadra l’abbiamo formata noi. A metà luglio c’era tanta incertezza, non si sapeva chi avrebbe fatto parte del progetto. Ne è uscito un gruppo largamente rinnovato. E noi siamo stati bravi ad amalgamarlo impartendogli una mentalità vincente e creando la giusta sintonia. Non ci sto quando si parla di rottura con lo spogliatoio per spiegarsi il calo della squadra prima del nostro allontanamento”.
Però questo pensiero se lo saranno fatto in molti.
“Lecito. Ma non si tiene conto di alcuni aspetti. Noi abbiamo disputato quattro mesi ad altissimo livello. Un calo è fisiologico come è del tutto naturale una contemporanea ripresa di altre squadre molto quotate come, per esempio, Perugia, Pisa e Benevento. E poi a gennaio si è immaginato che avessimo fatto una grande campagna acquisti invernale. E’ stato così solo sulla carta. Schetter si è rotto il collaterale al terzo allenamento ed è rimasto un mese fuori. Danilevicius a Catanzaro aveva fatto una grande partita e si è procurato una distorsione alla caviglia proprio in chiusura. E lo abbiamo perso per tre settimane. Lui poi ha una stazza fisica che lo obbliga a lavorare molto per recuperare. Lo stesso Giallombardo veniva da tanti mesi di inattività. Insomma, già i nuovi devono ambientarsi in una realtà inedita per loro, se poi incappano anche in infortuni diventa difficile”.
Pecchia ha preso una strada prestigiosa. Lei?
“Diciamo che al nostro rapporto si poteva dare continuità perché c’erano stati dei sondaggi con club blasonati di Prima Divisione ed altri di B. Ma appena è arrivata la chiamata del Napoli, noi, e parlo anche a nome degli altri componenti dello staff, non abbiamo potuto fare altro che spingere Fabio ad accettare. Per lui era un’occasione unica da non perdere. E che gli permetterà una crescita esponenziale lavorando con Benitez. Si tratta di uno dei 10 migliori allenatori europei che ci sono attualmente su piazza. Uno che ha vinto tanto. Con Fabio restano immutate stima ed amicizia. E non è detto che le nostre strade non si possano unire di nuovo in futuro”.
Quest’anno il Latina non ha puntato molto sui giovani avendo l’impellenza di vincere il campionato.
“E’ così. Avevamo sei giovani della Berretti aggregati alla prima squadra. Ma il club, oltre a voler andare in B, puntava molto proprio sulla vittoria del titolo nazionale della Berretti. Quindi i ragazzi dovevano essere concentrati su quest’obiettivo. E alla fine è andato tutto bene su entrambi i fronti”.
Ritiene sacrosanta anche la promozione dell’Avellino?
“Diciamo che ha vinto la squadra più completa e più compatta, non necessariamente la più forte. Basti pensare che alla fine del campionato sono risultati la miglior difesa. Tra quelli che hanno fallito l’obiettivo play-off, il Frosinone aveva un nucleo di diversi giovani che si affacciavano per la prima in categoria. Il suo mancato approdo agli spareggi si può capire. Diverso il discorso del Benevento. Hanno speso tanti soldi, erano una corazzata completa in tutti i reparti. Inspiegabile come non ce l’abbiano fatta”.
Sta pensando di conseguire il patentino Uefa A che le consentirebbe di allenare in Lega Pro?
“Sì. Ma ci sono tre strade per varcare, in questo senso, la soglia di Coverciano. Si può partecipare ad invito, o vincere sul campo un campionato di D o fare domanda per entrare in graduatoria. In quest’ultimo caso si è ammessi totalizzando un punteggio che deriva dal calcolo delle presenze anche da calciatore. Vedremo”.
Serie D, Eccellenza, Settore giovanile: ha qualche preclusione?
“No. Prenderei tutto in considerazione ma sui settori giovanili voglio sottolineare un concetto: un conto è allenare una squadra di Allievi, una Berretti o una Primavera. Altro è prendersi cura di un gruppo ancora più giovane. Non ne sarei stimolato. Ma solo per un motivo: io voglio fare l’allenatore, il che significa lavorare sul campo e insegnare. E ritengo che la figura del tecnico in squadre giovanissime tenda ad allargarsi debordando dal suo compito classico. In questi casi, cioè, serve qualcuno che sia anche un educatore, che curi determinati aspetti extracalcistici e personali riguardanti il ragazzo. E’ un lavoro delicato che non si può improvvisare”.
Quanto è importante la figura di un vice allenatore, nonostante sia spesso sottovalutata?
“Oggi si deve parlare in termini di staff, non di singolo allenatore. Il vice, per esempio, ha un ruolo fondamentale perché di regola funge da collante tra il gruppo ed il tecnico. Entra nelle dinamiche dello spogliatoio e deve gestirle sapendo mediare. Io, personalmente, sentivo questa vocazione già prima di smettere di giocare. Diventando più anziano, ero tra quelli che sapeva rapportarsi in un certo modo al proprio allenatore. Man mano abbandonavo psicologicamente la mentalità tipica del calciatore per abbracciarne un’altra. E le differenze sono notevoli. Io dico sempre che il giocatore guarda il particolare, cioè la propria sfera, a volte anche in modo egoistico. L’allenatore guarda l’universale, vale a dire il bene generale della squadra che va al di sopra del singolo. Sono modi di pensare spesso inconciliabili e, avendo alle spalle tanti anni di calcio giocato, li conosco bene entrambi. E un bravo tecnico deve essere abile a distaccarsi. Io stesso ho cambiato i miei modi di rapportarmi e tanti amici che ancora giocano notano certi cambiamenti nei miei discorsi e persino nel modo di proporglieli”.
Tanti anni di Napoli. E nei momenti più difficili del club azzurro.
“Napoli è sempre Napoli. La mia città, la mia squadra del cuore, l’esperienza comunque più bella. Cinque anni in prima squadra intensi. Ricordo ancora quando firmai il primo contratto nel ’91, quasi contemporaneamente all’addio di Maradona. Ero un ragazzino, arrivavo dal FC Vomero. Ho fatto le giovanili e poi mi sono aggregato alla prima squadra di Ulivieri nel ’98. Qualche tribuna ma anche diverse panchine. Quindi, con Novellino, l’esordio in campionato in una gara casalinga con la Sampdoria che vincemmo 1-0. E poi il gol nel 6-2 alla Reggina, l’unico in azzurro. Insomma, tanti ricordi”.
Si dice che da ragazzo lei fosse un centrocampista, poi abbassato in difesa.
“Vero. A 18 anni ho cambiato ruolo. E’ successo anche a Scarlato che un tempo era un centrocampista offensivo. E in quel ruolo Gennaro mi piaceva tantissimo. E impazzivo anche per Raffaele Longo. così come consideravo dei miti Rijkaard e Alemao. Di certo non potevo giocare come terzino, ma è successo anche questo”.
Quando?
“Con Zeman. Lui mi impiegò da esterno sinistro. Un ruolo che non mi piaceva. Non avevo le caratteristiche per farlo. Oggi, da allenatore, non metterei Troise sulla fascia. Farei un grosso errore”.
Come difensore a chi si è ispirato?
“Amavo Ciro Ferrara. Poi Fabio Cannavaro, Nesta e Maldini restano il top”.
Parlavamo del Napoli di Zeman. Anche con Mondonico la storia non cambiò e si rimediò la seconda retrocessione in B in pochi anni. Una brutta storia.
“A quel Napoli mancavano due aspetti fondamentali: i numeri, e quindi i gol, e una situazione societaria stabile. Diciamo che già si iniziavano a vedere gli antipasti di un fallimento che sarebbe inevitabilmente arrivato. Da Zeman a Mondonico il cambio fu troppo netto. Due mentalità diverse, modi di giocare opposti, stili differenti. Quindi un cambiamento totale non facile da assimilare. All’inizio Mondonico portò dei benefici, ma si capiva che l’annata era storta ed era scritto che dovessimo retrocedere. Non riuscimmo nel miracolo. Perché di miracolo si sarebbe trattato”.
E la sua migliore stagione a livello personale?
“Nel 1999/2000. C’era un gruppo unito e vincente. Per la mia carriera quel campionato è stato importante, esordio a parte. Ricordo l’entusiasmo per il ritorno in A: quando arrivammo a Capodichino il nostro pullman fu letteralmente sollevato dai tifosi. Ma anche con De Canio disputai una buona annata. Andò via perché capì che non c’era un progetto. Tutta la squadra, in ogni caso, si espresse bene. La A non arrivò per tanti motivi, non certo solo per quella gara pareggiata in casa con la Reggina”.
Giocare in età verde in quel Napoli non era come farlo nel Napoli odierno.
“Chiaro. Oggi un giovane può esprimersi compiutamente perché si inserisce in un contesto sano come è il Napoli di oggi. I ragazzi sono spugne, nel bene e nel male. E a quei tempi, un giovane poteva risentire di certe problematiche. A me è capitato. Inizialmente avevo la sfrontatezza del ragazzo ingenuo ed i primi anni mi sembravano bellissimi. Quasi non risentivo del fatto che giocavo davanti a 70mila persone e per una tifoseria unica per la propria passione. Poi determinati problemi li ho avvertiti anche io a causa delle difficoltà in cui ci trovavamo. E mi rimprovero una cosa”.
Ci dica.
“Forse sarebbe stato consigliabile far prevalere la ragione. A un certo punto sarebbe stato meglio se fossi andato via. E le richieste di club importanti in A non mancavano”.
Restiamo a quei tempi. Due nomi di attaccanti prestigiosi: uno che l’ha fatta penare e un altro che invece ha annullato.
“Marcai bene Shevchenko in un Milan-Napoli che perdemmo 1-0 con un gol di Ambrosini. Presi anche una traversa. Peccato, avremmo meritato il pari. Delvecchio con la Roma e Vieri con l’Inter mi hanno messo in difficoltà: davvero due grandi attaccanti”.
Venendo ai giorni d’oggi: a questo Napoli secondo lei cosa manca ancora?
“L’organico è da implementare. Anche con l’arrivo di Higuain ritengo che si debba fare ancora qualcosa. Il cambio di allenatore, e di modulo, porta un cambiamento anche nella mentalità, quindi bisogna agire bene. La squadra ha comunque una buona intelaiatura”.
Fonte: TMW
La Redazione
M.P.
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