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È caccia a Lo Russo, il boss amico del Pocho Lavezzi

Lo hanno protetto le rotte del contrabbando, dall’Albania alla Polonia, per poi fare rientro a Napoli, magari passando dalla Grecia. Tre anni, una latitanza attiva: da boss, uno che fugge dallo Stato ma che non abdica. Anzi: decide, comanda, si impegna in soluzioni drastiche, drammatiche. Eccolo il ritratto di Antonio Lo Russo, figlio trentenne del boss pentito Salvatore, quello che dal 2010 snocciola accuse contro camorra e pezzi delle istituzioni. Un padre pentito, un clan da controllare, specie dopo l’omicidio di Francesco Bara – siamo a dicembre scorso -, che fa vacillare per qualche settimana il controllo del rione Sanità. Storie intrecciate, lui si sa muovere, secondo quanto emerge dalle ultime informative della Dda di Napoli. All’inizio si è appoggiato al circuito del contrabbando di sigarette, dove il padre Salvatore spadroneggiava anche da un punto di vista «politico»: per lui, per Salvatore, scese in campo addirittura l’ex ministero degli Esteri albanese (stando a un verbale fresco di deposito), a mettergli a disposizione uno dei porti nazionali come scalo del contrabbando.
È da qui, dalle rotte delle «bionde», che ha inizio la latitanza di Lo Russo jr. Tre anni in fuga, una lunga sortita in Polonia, secondo quanto è emerso dalle indagini per riciclaggio, a proposito di una vista in Polonia di un imprenditore accusato di aver riciclato soldi dei Lo Russo. Inchieste incrociate, che consentono di raccontare storia ed emancipazione criminale del presunto boss di Miano e Capodimonte. Siamo a metà del decennio scorso, Lo Russo jr ha manie di grandezza. Il padre, all’epoca boss dell’area nord con solidi interessi nel centro cittadino, lo tiene a freno: gli mette affianco un uomo di fiducia e gli dà un potere solo virtuale. Dal 2007, però, le cose cambiano: Salvatore in cella, il figlio Antonio agguanta le redini. In pochi mesi, a Miano spariscono quattro reggenti. Una coincidenza? Lupara bianca, tra questi c’è l’odiato Francesco Russo, alias «doberman», inchiesta mai conclusa, nessuna accusa mossa a Lo Russo jr, ma sulla sua ascesa c’è un’ombra in più. Smette anche di giocare a calcio, o lo fa solo sotto falso nome. È un bomber, gioca per il Miano calcio, la squadra del quartiere, che gode – almeno negli andati anni d’oro – di sponsor e tifo eccellenti. Sono i tempi del pocho, delle visite sulle gradinate del Miano sport di Ezequiel Lavezzi, almeno secondo quanto racconta il pentito Emanuele Ferrara: va a guardare l’amico giocare e vincere, ma sa anche ricambiare, ospitandolo in casa per partite alla Play station. Poi, con le prime avvisaglie di una trattativa per vendere Lavezzi, è Antonio Lo Russo a finanziare uno striscione sotto la curva, quel «pocho non si tocca» che la dice tutta sul pressing di una certa tifoseria al San Paolo. Storie che contribuiscono ad alimentare la leggenda di un soggetto ritenuto ancora centrale nella geografia criminale napoletana. Spiega Emanuele Ferrara, che lui è «un malato del calcio» e che mai avrebbe contribuito a organizzare scommesse penalizzando il club di Fuorigrotta, ripensando alla suggestione di quel Napoli-Parma del 2010, quando si scopre che Lo Russo è un habituè del San Paolo. Finto giardiniere, entra in campo con la pettorina gialla, grazie ai favori di un ex capo tifoso. Anche negli ambienti criminali, la sua passione per il calcio è cosa nota: per il matrimonio, gli scissionisti gli fanno un regalo da 100mila euro, quasi un omaggio in tempi di pace con il clan Lo Russo; poi, sempre il clan Amato-Pagano si prodiga a regalare al giovane figlio di Salvatore Lo Russo un campo di calcetto, dove l’aspirante boss si esibisce in dribbling irresistibili. Guai a marcarlo stretto, ma anche a filmarlo: quando un tizio provò ingenuamente a portare a casa immagini della partita, dovette cedere l’attrezzo, ma da allora Lo Russo jr ha cambiato stile: e si esibisce sempre sotto falso nome.

 

Fonte: Il Mattino

La Redazione

M.V.

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