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Arriva Diego, Sua divinità Maradona fa tacere i romanisti che invocavano il Dio Vesuvio

Tifosi azzurri in visibilio, cori per il Pibe

ROMA – La partita che non si doveva giocare è finita con il trionfo della Roma e un predestinato: Miralem Pjanic, detto il Pianista, l’ex bambino fuggito con la famiglia dalla guerra in Bosnia. Personaggio perfetto nel giorno in cui attorno al campo c’era un invisibile filo spinato. Perché l’ottava vittoria giallorossa e la festa di un popolo, rimasta a cantare a lungo dopo la fine, è maturata al termine di una partita vera ma nel cuore di una città semiparalizzata dalla paura. Roma-Napoli ha confermato i sospetti del vecchio Valdano: il campo è una jungla immutabile, in cui le intuizioni di un giocatore, il colpo a effetto, che sia di Totti o Hamsik come di un tempo di Cruyff o Zico o Maradona, decideranno sempre le grandi partite. Quella è verità. Il calcio non cambia, ma è cambiato il resto. In peggio, molto in peggio.

IL FATTO – Dentro lo stadio, ma anche fuori. C’è stato di tutto. I cori dei romanisti verso i napoletani, prima del via, dalla invocazione al Dio Vesuvio «lavali col fuoco» al coro pop del momento, «noi non siamo napoletani» a «senti come puzza Napoli». Possibile chiusura della curva? Dipenderà dalla “percezione reale del fenomeno”, così dicono, un po’ come la famosa banana “percepita” di Altan. Dipende da dove finisce. I tifosi del Napoli hanno risposto lanciando razzi sugli spettatori della nord, che, di rimando, hanno reagito con le stesse armi e nuovi velenosi cori. Non c’è più ironia, cultura popolare, ma facile insulto e vecchia violenza. River-Boca. Corinthians-Palmeiras. Forse. Ma, in fondo, perché chiedere alle curve di essere migliori di questo Paese? Dei dirigenti di questo calcio? I presidenti di serie A sono stati in silenzio riguardo ai cori razzisti. Qualcuno ha chiesto le attenuanti, per salvaguardare l’incasso. Arriva un educato e ricco signore asiatico per investire in Italia e noi sappiamo dire di carino solo «Giakartone». In tribuna, anche ieri, la solita pletora di politici, arrivati in autoblu e malsopportati dal popolo, che li ha messi in un angolo nel momento in cui, al decimo, è comparso in tribuna Sua Divinità Diego Armando Maradona con al fianco la fidanzata ufficiale numero tre, Rocìo Oliva. Dal settore azzurro sono partiti cori estatici, seguiti dagli applausi, anche romanisti, della tribuna. Maradona è amato dalla gente perché ha fatto sognare, ma anche lui – guai col fisco a parte – per la prima volta dentro uno stadio italiano dopo la grande fuga degli anni Novanta, non deve essersi sentito granché a suo agio. E comunque non ha visto il primo gol di Pjanic: era andato al buffet della tribuna.

L’ANOMALIA – Roma resta una città pazza di calcio, estatica, ma sproporzionata, capitale di un Paese mai normale, in cui una grande notte, per fortuna senza incidenti gravi, è stata comunque sporcata dalla paura di un’apocalisse. Migliaia di poliziotti hanno presidiato i ministeri, chiuso le strade, bonificato i cassonetti. Una partita da scudetto dal destino piombato, stretta tra la manifestazione delle Unioni sindacali di base, al mattino, e quella dei No Tav e dei Centri sociali, attesi per oggi con molta più cupezza. Molto esistenziale. In mattinata gli insegnanti avevano dovuto sfilare mascherati da scheletri per difendere la dignità del loro lavoro. Cortei civili, ma a ogni suono di sirena, i passanti si fermavano con ansia. A ogni passaggio di blindato, si sollevavano teste. Uno guarda in una direzione, quello accanto fa lo stesso, e un altro ancora e tutti insieme, in pochi metri di marciapiede, si ritrovano a fissare un punto dove, in realtà, non succede niente. Si chiama paura. La stessa che ha tenuto lontano dall’Olimpico almeno diecimila persone. Certo, i prezzi (45 euro per un posto in curva), ma il clima da bunker ha spaventato. Di sicuro molti dei duecento tifosi che avevano atteso, di fronte al piazzale dell’hotel del Napoli, la partenza della squadra verso lo stadio, accompagnata dal grido «vincere vincere». I giocatori erano sfilati col capo chino. L’unico, Rafa Benitez, il più napoletano di tutti, aveva dato il cinque ai tifosi. Partito il pullman, si sono consolati rivedendo le immagini registrate dagli ipad. Niente partita. Quando nell’86 Maradona segnò il gol della vittoria all’Olimpico, c’erano sessantamila persone. Sedicimila erano del Napoli. Ieri, sì e no seimila. Altri tempi, fatti di poca tv e tifoserie gemellate, di «cugini romani» e «cugini napoletani». Poi Bagni fece il gesto dell’ombrello dopo un gol di Francini al novantesimo e tutto finì. Ieri all’Olimpico erano in cinquantamila. I lati della Tevere semivuoti, così come una porzione della Nord. Ma il tifo è stato potente, popolare, a tratti avvolgente. Molti i ragazzi, che non avevano riconosciuto all’ingresso dell’Olimpico un signore con giubbotto chiaro e jeans, le gambe arcuate dalle operazioni subite: Francesco Rocca. Neanche erano nati quando lui giocava. Allora gli stadi erano strapieni e animati da logiche diverse. Tutto perduto. Solo il gol e il boato che la folla accompagna è rimasto lo stesso. E per due volte, davanti alla gioia di un ragazzo fuggito dalla guerra, l’Olimpico è sembrato uno stadio normale.

fonte: Corriere dello Sport

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