Il segreto del successo lo ha svelato senza troppi problemi: «A Manchester sanno chi comanda». Alex Ferguson è l’esempio più chiaro (e meno contestabile) di Manager. Non a caso, se per il grande pubblico è «Sir Alex», per chi gli sta vicino da collaboratore o dipendente è il «Boss». Lo ha scritto Piqué recentemente: «Lui è il Boss. E lo sarà per sempre» . Lo ha sottolineato Gary Neville: «Può fare e disfare una carriera». Il suo potere al Manchester United è assoluto; quando si inalbera urla come un ossesso (di qui l’altro soprannome: l’asciugacapelli) e a volte lancia anche scarpini (ne sa qualcosa Beckham). Sul campo lavora pochissimo. A quelle incombenze provvede il suo staff, in particolare il suo assistente, Mick Phelam che nel 2008 prese il posto di Carlos Queiroz. Le decisioni tecniche passano solo per la sua scrivania e l’immagine del club è legato al suo volto: che ci sia un presidente che si chiama Malcom Glazer pochi lo sanno, che ci sia un amministratore delegato di nome David Gill è notizia per pochi intimi.
LEGGENDA -Ma questa grande libertà di azione, Ferguson se l’è conquistata con una carriera leggendaria. Insomma, il suo potere non è la conseguenza di una qualifica, ma l’inevitabile evoluzione di una vita professionale. Il suo esempio nella Premier non è isolato. Arsene Wenger, seppur con qualche condizionamento in più, assolve all’Arsenal agli stessi compiti di sir Alex: allenatore e, sostanzialmente, direttore sportivo. Contano, tanto allo United quanto nel club di Londra, gli osservatori. Ma la figura forte, anche da un punto di vista mediatico, è il manager. Peter Hill-Wood dell’Arsenal è il presidente ma le sue parole non ribalzano quasi mai sui giornali e l’amministratore delegato Ivan Gazidis si dedica silenziosamente alla gestione economica del club. Ma Ferguson e Wenger non devono trarre in inganno: anche nel calcio inglese resistono modelli organizzativi più tradizionali, più «italiani». Il Chelsea, ad esempio, anche per la giovane età di Villas Boas ha deciso di tenere al vertice della società anche un direttore tecnico che significativamente sino a qualche anno fa ricopriva il ruolo di capo degli osservatori. E un direttore tecnico ce l’ha anche il Manchester City di Roberto Mancini. «L’uomo solo al comando» , insomma, vale per alcuni ma non per tutti.
FASCINO -La figura del manager è affascinante, soprattutto affascina gli allenatori. Ma sembra funzionare laddove si realizzano due condizioni: una società poco «invadente» dal punto di vista delle scelte tecniche (e anche dell’esposizione mediatica); uno staff tecnico in cui il manager riesce a convivere (e a scegliersi) un «assistente» forte (ma quanti tra i tecnici italiani riuscirebbero a entrare in sintonia con un «vice» che è quasi un «titolare» come Queiroz?). Non a caso la figura del manager, molto affascinante in teoria, fatica a diffondersi nella pratica al di fuori dei confini inglesi. Lo stesso Josè Mourinho che ama avere sotto controllo un pianeta professionale molto vasto, a Madrid non ha totalmente carta bianca. Se è vero che coniuga la qualifica di manager con quello di allenatore della prima squadra, è anche vero che sopra e sotto Perez ha provveduto a piazzargli due figure piuttosto autorevoli, Emilio Butragueno (direttore delle relazioni istituzionali) e Zinedine Zidane (direttore della prima squadra). Nel calcio latino la fiducia non è mai illimitata e persino Pep Guardiola che a Barcellona ha vitto di tutto e di più deve, comunque, coordinarsi con un direttore sportivo che è anche uno dei «monumenti» del club, Andoni Zubizarreta.
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
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