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Di Biagio lancia l’allarme: “Altro che riforma, dobbiamo mettere un tetto agli stranieri”

Il ragionamento fila, in effetti. Nel caso della B poi c’è la concomitanza degli eventi, tra Nazionali e campionato.
«Ma il discorso riguarda tutti, presidenti, federazioni e addetti ai lavori. Perché non può essere solo ed esclusivamente un discorso legato al mercato. I club ti dicono, per esempio, che è più importante una partita di campionato. Mentre io dico che una partita di livello internazionale ne vale dieci di B, a livello di intensità partite del genere non ne vedi in campionato. Noi lo scopriamo anche attraverso i sistemi gps con cui durante i test amichevoli facciamo giocare i nostri ragazzi. I livelli di corsa, intensità e chilometri a fine partita sono impressionanti».
Ora c’è anche una novità sugli stranieri: un’altra botta pesante per i nostri ragazzi…
«Non è il massimo. Se dovessi dare un giudizio direi che così si regredisce, non si migliora. Per me servirebbe una regola semplice: un numero di italiani minimo da portare in campo, o tra campo e panchina. Cinque? Otto? Un minimo da stabilire come regola per tutte le nostre società. E per quanto riguarda i settori giovanili servono i professionisti. E’ da lì che parte tutto, dall’insegnamento. Ma se chi insegna non è professionista e si trova lì solo perché con lui la società ha risparmiato, ecco che non si crescerà mai come movimento. Bisogna investire dal basso, il mercato a ribasso non porta da nessuna parte. E poi nella crescita dei ragazzi non bisogna mai dimenticare che prima si è uomini e poi calciatori: sempre meglio uno così così che però è un professionista piuttosto che il fenomeno che però non ha la testa».
Come si è passati da primo movimento calcistico europeo al livello attuale?
«Se conta sempre e solo la logica del risultato e mai il gioco attraverso il quale arrivare al risultato stesso il problema non si risolverà mai. Da italiani siamo forse ancora superiori agli altri sotto certi punti di vista, però in tanti sono sempre lì a pensare a come giocano gli altri per regolarsi di conseguenza. Dovremmo cominciare a pensare più a noi stessi che sempre e solo a come giocano gli avversari. Se ne giochi dieci per vincere, alla fine sette-otto le vinci».
Il serbatoio degli italiani bravi si assottiglia sempre di più?
«Abbiamo dei problemi, anche Antonio Conte come me sta facendo i salti mortali nella ricerca dei giocatori. Stiamo faticando a trovare chi possa arrivare in alto, non solo per tecnica ma anche per comportamenti. Però oggi siamo a un punto in cui di giocatori pronti per la nazionale maggiore ce ne sono. Rugani, Romagnoli, Beradi, Sturaro e Perin che è già tra i grandi. Senza calcolare Verratti, De Sciglio e El Shaarawy che sono dei ‘92… Per esempio di centravanti tra cui scegliere io non ne ho poi così tanti, e così ho scelto Trotta dalle serie minori inglesi. Longo fatica, poi qualcosa altro in giro, per esempio Comi, ma poco altro».
A livello di preparazione atletica siamo un po’ indietro, non trova?
«Con la mia squadra faccio le esercitazioni per far ripartire l’azione dal portiere perché in Italia spesso si arriva nella metà campo avversaria senza l’ostacolo del pressing. Poi andiamo in campo internazionale e non riusciamo a uscire dalla nostra area di rigore. E, senza che nessuno se la prenda, penso che ci siano problemi di preparazione. Quando aumentano i ritmi di allenamento sono tanti i ragazzi che vanno in difficoltà, probabilmente l’intensità che usano durante le sedute nei club non è all’altezza».
E’ cambiato il modo di essere giovani calciatori da i suoi tempi a oggi?
«Sì, purtroppo. Anche se la valutazioni sul nostro gruppo sono positive, in generale si può dire che oggi i ragazzi hanno molte più distrazioni e a volte si fanno condizionare e perdono concentrazione. A due, tre dei miei l’ho detto: Rugani o Belotti giocheranno 15 anni in serie A se manterranno la testa che hanno. Il migliorarsi e il non pensare di aver ottenuto tutto dopo aver giocato due partite sono concetti fondamentali, gli stessi che da tempo erano stati segnalati prima da Sacchi e oggi da Conte. Sono concetti che possono fare la differenza, non solo nel calcio ma anche nella vita. Ciò che non vedo nei giovani attuali è il sapersi porre sempre un nuovo obiettivo, una nuova mèta da raggiungere».
Per insegnare ai giovani deve essere anche un po’ psicologo?
«Per quel che riguarda i temi tecnico-tattici ho poco tempo e quindi mi baso su cose semplici. Sulla testa, per via di due o tre momenti difficili vissuti da calciatore – tra rigore sbagliato al Mondiale in Francia e Europeo perso ai supplementari – andare subito oltre e pensare immediatamente alla prossima partita mi viene facile. Anche nelle difficoltà oggi sono tranquillo, in tanti mi hanno detto che sul 2-0 per la Serbia ci credevo solo io. Era vero: quando mi sono girato tutto lo staff era buttato in panchina senza animo, sembrava avessimo già perso. Ho detto a tutti che se avessimo segnato avremmo riaperto la gara… (a Pescara è finita 3-2 per gli azzurrini)».
E’ cambiato anche il modo di essere calciatori in campo?
«Sì. Prima di tutto oggi a certi livelli fisicamente ci sono giocatori devastanti. Poi porto l’esempio della Germania per parlare di calcio totale. Qualcuno pensa e dice che la Germania non ha un fenomeno vero e proprio, una stella che oscuri tutti gli altri. E’ così perché quelli sono tutti fenomeni, non hanno ruolo e sono tutti fortissimi, sia fisicamente che a livello tecnico-tattico. Oggi difficilmente trovi il Baggio o il Totti, oggi Ronaldo, ma anche Messi, sono macchine anche dal punto di vista fisico, tanto che la tecnica diventa quasi una cosa in più».
Quanto c’è di Di Biagio nel raggiungimento della fase finale dell’Europeo?
«Non sta a me dirlo. Ciò che posso dire è che secondo me abbiamo fatto un’impresa vincendo il girone in cui c’erano Serbia e Belgio, che sono tra le migliori europee della categoria. Però ancora non sono soddisfatto del tutto, perché l’obiettivo che abbiamo è quello di arrivare a un livello top e ancora non ci siamo».
Però di strada i suoi ragazzi ne hanno fatta. Ora giocano di più anche nei club di appartenenza…
«Dopo la prima, il ko con il Belgio, la differenza di rendimento aveva allarmato tutti, c’era perplessità sulle reali possibilità dell’Under. Io invece dicevo a tutti che potevamo farcela, e ai ragazzi parlavo dell’Olimpiade di Rio, perché ci credevo pur sapendo che sarebbe stata durissima e perché volevo dare subito un segnale alla squadra. Ad oggi dico che non avrei potuto chiedergli di più».
Portogallo, Inghilterra e Svezia: finali durissime?
«Non ho paura, né sono contento. Non dico mai questa è facile e questa è difficile. Il nostro pensiero deve essere quello di arrivare in fondo e per farlo devi incontrare e battere anche le più forti».
A sette mesi di distanza sono più le cose che la lasciano tranquillo o più le preoccupazioni?
«Io per natura non sono mai tranquillo e soddisfatto. Di buono c’è che siamo diventati un gruppo, abbiamo un’anima e questo è un bene perché so cosa i ragazzi mi possono dare. Dall’altra parte, però, dobbiamo ancora crescere tanto, a livello di equilibrio e di concretezza in avanti. Pure in amichevole con la Danimarca abbiamo creato tanto ma realizzato solo un gol, forse il difetto più lampante oggi è questo».
I 23 per la final eight usciranno dal gruppone degli ultimi mesi?
«Sì. La sorpresa può arrivare sempre, però oggi stiamo lavorando su 26-27 nomi, non di più. La novità può arrivare da ciò che ci dice il campionato. Con Bernardeschi ho parlato, è sereno e i tempi per il recupero ci dovrebbero essere, aspettiamo marzo e segnali positivi. Cataldi? Spero possa trovare spazio da gennaio in poi, forse dovrebbe andare a giocare in prestito perché la Lazio ha trovato un equilibrio e ora trovare spazio lì non è semplice».
Fonte: Corriere dello Sport
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