NAPOLI – Tredici giorni per rivoltare il Napoli, per ritrovare quella «stella» avvolta nel fumo di Londra. Cosa è successo, perché è successo? Il calcio è scienza inesatta e in quel ruzzolone dell’Emirates c’è racchiusa una metamorfosi, o più semplicemente un paradosso, di difficile soluzione: perché tra l’immensità del 18 settembre, 2-1 ai vice campioni d’Europa presi a pallonate per lunghi tratti, e il 2-0 dell’Arsenal subito da giganti trasformati in lillipuziani, la distanza è enorme e le motivazioni danzano in quel vuoto.
1) IL GAP – La rappresentazione delle difficoltà è espressa dalla difesa, che vacilla anche per l’assenza di una protezione precedente garantita non solo dagli equilibri tattici ma anche da una freschezza atletica che permette a chiunque di andare a raddoppiare, soprattutto di accorciare e di poter dunque giocare una infinità di seconde palle, utili per ripartire rapidamente, creando ansia nelle retroguardie avversarie ed entusiasmo in quel Napoli che a trazione anteriore sa divertire.
2) MAREK SCURO – Quattro reti nelle prime due giornate, il miglior Hamsik delle sue stagioni partenopee: segna con invenzioni personali o con randellate dal limite area; segna ispirandosi da solo o giovandosi di ciò che gli concede la squadra; segna da seconda punta, ruolo per lui inedito, che lo avvicina alla porta e gli offre certezze offensive e minori responsabilità difensive. Poi l’eclissi, non solo nei sedici metri, ma nel contesto d’un gioco dal quale rimane emarginato: mai successo, di questi tempi, perché l’autunno non è stato malinconico, nel settennato di Hamsik.
3) A TESTA IN GIU’ – L’autorevolezza che il Napoli mostra con il Borussia Dortmund (ma anche con il Bologna e l’Atalanta in casa; ma anche a Verona, dopo essere stato raggiunto sul 2-2; e poi a Milano, contro una squadra di indiscutibile spessore, con un quarto d’ora da favola, praticamente ai livelli dell’Arsenal) si sgretola all’Emirates, dove non c’è traccia di interpretazione, né di contenuti caratteriali. Eppure sono passate appena due settimane da quel debutto da Champions, ma qualcosa s’è improvvisamente incrinato, forse nella costruzione tattica d’una partita alla quale il Napoli si è presentato come non sa fare: cioé aspettando l’avversario e lasciandogli campo. Troppo, a dire il vero.
4) LA STANCHEZZA – Lo scatto furente delle prime gare s’è affievolito e soprattutto sulle corsie ciò costituisce un pregiudizio, soprattutto quando il pallone ce l’hanno gli avversari: Callejon e Insigne rompono il ritmo altrui, spezzano le difese e poi rinculano, andando a comporre la mediana a quattro, garantendo le necessarie coperture e consentono a Behrami e ad Inler (o a Dzemaili) di rifiatare, dunque di rilanciare. A Londra, Callejon ha confermato l’appesantimento nella corsa ed Insigne ha corso innanzitutto in avanti. E Behrami ed Inler si sono ritrovati soli ed in inferiorità numerica.
5) VISTO DA LONTANO – Al Napoli piace anche specchiarsi un po’ in se stesso, ma la manovra, il palleggio, mira alla ricerca della profondità, anche attraverso il movimento senza palla: le soluzioni dalla distanza restano rare, quasi sembrano non appartenere al codice genetico di una squadra che sa far male in contropiede (com’è successo) ma che non ha mai deciso a priori di fondare la sua filosofia sulle ripartenze, figlie semmai dello sviluppo della partita. C’è tanto ricamo, c’è l’uno-due, c’è il dai e vai, c’è il tourbillon di Higuain che esce per far entrare i centrocampisti e c’è una solenne rasoiata di Dzemaili e quella botta dai sedici metri di Hamsik.
Fonte: Corriere dello Sport
La redazione
F.G.
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