Lo psicologo nell’area di rigore diventa un amico dal quale farsi accompagnare e prima di accomodarsi a leggere Freud, meglio organizzarsi sul sofà di casa: per Cavani, per Hamsik, per i rigoristi in genere, ci sono spiegazioni (terapeutiche). Luigi De Maio, professore, psichiatra, psicoterapeuta, con un passato nel Napoli («ho lavorato con tutti gli allenatori, da Vinicio a Bianchi») ha un lettura (e un lettino) a disposizione.
Perché succede, professore?
«Per vari motivi, ovviamente. Ma anche perché talvolta si pensa che il rigore sia la soluzione magica per vincere la partita. E anche che sia un evento ormai realizzato. Non a caso, alla concessione d’un penalty, i calciatori della squadra che deve calciarlo, si abbracciano. Come se avessero già segnato».
C’è il rischio sindrome?
«Il timore esiste, ma la ragione spinge a pensare che si intervenga: chi va sul dischetto deve essere sollevato dal timore di sbagliare. L’errore rientra nella normalità del calcio e dell’essere umano».
Scherziamoci su, ovviamente: c’è una cura?
«Serve sicurezza, come insegnano i cucchiai di Totti e le mazzate di potenza di Ibrahimovic. Bisogna credere in quel che si fa. D’altro canto il rigore è un esercizio di forza tra chi calcia e chi para, altrimenti il portiere cosa ci starebbe a fare?».
E il prossimo azzurro cui capiterà l’onere?
«Sia sereno e pensi che in fin dei conti, se gli va male, poi potrà rifarsi. E se poi siamo al novantesimo, calma e nessuna perplessità: perché il dubbio è la negazione dell’azione stessa».
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
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